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Tutela dell’ambiente: l’Ecuador è lontano


STEFANO PALMISANO*
 

 

Quito, Ecuador - settembre 2008

 

Il popolo ecuadoregno, in un referendum costituzionale, approva la nuova Carta Costituzionale del Paese, nella quale partendo dalla celebrazione de “la naturaleza, la Pacha Mama, de la que somos parte y que es vital para nuestra existencia”, si decide, nei principi fondamentali, di costuire “una nuova forma di convivenza civile, nella diversità e armonia con la natura, per realizzare ‘el buen vivir, el sumak kawsay’ ”, e al titolo primo, “Diritti”, Sezione seconda, “Ambiente sano”, Art. 14.- “si riconosce il diritto del popolo a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato, che garantisca la sostenibilità e il buon vivere, ‘sumak kawsay’. “Si dichiara di interesse pubblico la conservazione dell’ambiente, la conservazione degli ecosistemi, la biodiversità e l’integrità del patrimonio genetico del paese, la prevenzione del danno ambientale ed il recupero degli spazi naturali degradati.”
All’art. 15, si prosegue proibendo solennemente, “lo sviluppo, la produzione, la detenzione, la commercializzazione, l’importazione, il trasporto, lo stoccaggio e l’uso di armi chimiche, biologiche e nucleari, di contaminanti persistenti organici altamente tossici, agrochimici internazionalmente proibiti, nonché le tecnologie e gli agenti biologici sperimentali nocivi e gli organismi geneticamente modificati pregiudizievoli alla salute umana o che attentano alla sovranità alimentare o agli ecosistemi, così come l’introduzione di scorie nucleari o di rifiuti tossici nel territorio nazionale.
Questa normativa costituzionale (citata solo in parte) straordinariamente incisiva ed avanzata rispetto alla totalità delle costituzioni vigenti nell’intero pianeta, in pratica, afferma l’ambiente e la natura come soggetti di diritti e non più come mero oggetto del diritto di proprietà. E’ lecito ricavarne, pertanto, che gli stessi beni giuridici godranno di una tutela giuridica e giudiziaria effettiva, anche e soprattutto in ambito penale. Almeno in Ecuador.


Strasburgo, Francia – novembre 2008


Il Parlamento europeo ed il Consiglio dell’Unione Europea, approvano una nuova direttiva in materia di protezione penale dell’ambiente.
Partendo dalle considerazioni per cui “ai sensi dell’articolo 174, paragrafo 2, del trattato, la politica comunitaria in materia di ambiente deve mirare ad un elevato livello di tutela;” ancora, “la Comunità è preoccupata per l’aumento dei reati ambientali e per le loro conseguenze, che sempre più frequentemente si estendono al di là delle frontiere degli Stati in cui i reati vengono commessi. Questi reati rappresentano una minaccia per l’ambiente ed esigono pertanto una risposta adeguata.”; nonché “l’esperienza dimostra che i sistemi sanzionatori vigenti non sono sufficienti per garantire la piena osservanza della normativa in materia di tutela dell’ambiente. Tale osservanza”, proseguono gli Organi legislativi europei, “può e dovrebbe essere rafforzata mediante la disponibilità di sanzioni penali, che sono indice di una riprovazione sociale di natura qualitativamente diversa rispetto alle sanzioni amministrative o ai meccanismi risarcitori di diritto civile.”
Il testo normativo europeo continua con la fondamentale osservazione a tenore della quale “un’efficace tutela dell’ambiente esige, in particolare, sanzioni maggiormente dissuasive per le attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie.
Tutto ciò premesso, ed altro ancora qui non citato, “la presente direttiva obbliga gli Stati membri a prevedere nella loro legislazione nazionale sanzioni penali in relazione a gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell’ambiente.
In sintesi, anche nel caso di quest’altro fondamentale atto normativo indirizzato a tutti gli Stati membri il principio di fondo è quello di ottenere un’ “un’efficace tutela dell’ambiente” a mezzo di “misure di diritto penale”, e al fine del perseguimento di questo principio, repetita iuvant, “la presente direttiva obbliga gli Stati membri a prevedere nella loro legislazione nazionale sanzioni penali in relazione a gravi violazioni delle disposizioni del diritto comunitario in materia di tutela dell’ambiente.


Roma – giugno 2009


L’Accademia internazionale di scienze ambientali (IAES) presenta la campagna “Justice for the Planet Earth” per raccogliere firme a sostegno dell’istituzione della Corte penale europea e internazionale per i crimini ambientali. Per la prima volta si lancia un messaggio forte ed inequivoco: il disastro ambientale dev’essere riconosciuto come un crimine contro l’umanità.
«L’inquinamento dell’ambiente, e in particolare i numerosi disastri che hanno colpito il pianeta, non possono più configurarsi come episodi ristretti nell’ambito dei confini di una data nazione, interessando spesso quell’evento diversi Paesi, come è accaduto per Chernobyl, Bophal nei tanti, ripetuti disastri marini causati dalle petroliere illegali», come si legge nella Carta per l’istituzione della Corte penale internazionale dell’ambiente.
La proposta è quella di ampliare le competenze della Corte penale internazionale dell’Aia, prevedendo una nuova figura di reato: il disastro ambientale come crimine contro l’umanità.
Per introdurre questo nuovo tipo di illecito è necessario intervenire sullo statuto della Corte dell’Aia, con una modifica che deve essere approvata da almeno due terzi dei Paesi firmatari.
Un passo significativo in questo senso è stato compiuto con l’approvazione della Carta di Venezia del 2006, un documento in cui è stata richiamata l’elaborazione operata dall’Unione europea sulla responsabilità in tema di ambiente e sulla correlata tutela penale, in base al noto principio del «chi inquina paga».
L’altro obiettivo della campagna è l’istituzione di una vera e propria Corte penale europea dell’ambiente, con sede a Venezia, competente in tema di reati contro il Pianeta.
Anche in questo caso, dunque, traspare limpidamente l’idea, il bisogno, di ri-qualificare giuridicamente il bene ambiente per garantirgli una tutela giuridica effettiva, o quantomeno, verrebbe da dire pensando ad esperienze vicine a noi, dignitosa, in specie in ambito penale.
Quelli citati sono solo alcuni esempi di una consapevolezza e, dunque, di una sensibilità che si consolidano e crescono in gran parte del mondo, anche in parti apparentemente “meno sviluppate”, sulla centralità di questo peculiarissimo bene e che diventano (o spingono i governanti perché producano) concreta e cogente normazione di tutela, in particolare di tutela penale.


Italia - agosto 2009


In questa gran parte del mondo non c’è l’Italia.
In questo paese, nel quale pure non mancano le ragioni di “preoccupazione”, per usare una pietosa litote, per le sorti dell’ambiente naturale, come dimostrano regolarmente studi, statistiche, rapporti ecc… (l’ultimo pubblicato in ordine di tempo, quello di Legambiente, il noto rapporto annuale “Ecomafie”, parla di 71 reati ambientali al giorno, consumati contro l’ambiente del Belpaese), la normativa di tutela non è proprio conforme, per continuare con gli eufemismi, alla temperie politico – culturale sopra descritta, nonché, in particolare, alle prescrizioni dettate dalla direttiva europea su citata in tema di “efficace tutela dell’ambiente” da garantirsi tramite “misure di diritto penale”.
Il che, più precisamente, nella specifica materia che ci occupa altro non vuol dire se non che lo Stato italiano è inadempiente rispetto agli specifici obblighi che, come visto, quella direttiva crea, ormai da nove mesi, in capo agli stati membri; direttiva, peraltro, che costituisce una mera ripetizione – puntualizzazione di principi già ampiamente acquisiti nell’ordinamento giuridico comunitario.
Tanto per fare anche in questo caso un solo esempio, nel principale testo legislativo vigente in questa nazione in materia di “tutela” (si fa per dire) ambientale, il difficilmente aggettivabile “Testo Unico sull’ambiente” (D. L.vo 152\2006), si statuisce che “chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro. Si applica la pena dell'arresto da uno a tre anni e dell'ammenda da euro cinquemiladuecento a euro cinquantaduemila se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi.” (art. 256).
Il reato di discarica abusiva (che, peraltro, la norma citata definisce, più delicatamente, “attività di gestione di rifiuti non autorizzata”) è uno dei reati cardine del sistema delle ecomafie; più precisamente, è il reato che può essere seriamente contestato al melmoso “indotto” che alligna e prospera nelle acque putride, ma sempre più debordanti, di quel sistema. Un esempio classico di questo indotto è costituito dai proprietari dei terreni che concedono in locazione i loro suoli alle organizzazioni criminali per potervi realizzare proprio le discariche che servono ad accogliere i carichi di rifiuti industriali di ogni specie provenienti dalle fabbriche del nord - Italia.
Ebbene, a tacere della più immediatamente percepibile questione della congruità, per non dire della serietà, della pena prevista per un reato dall’impatto ambientale così devastante (da uno a tre anni di arresto nell’ipotesi più grave di discarica destinata allo smaltimento di rifiuti pericolosi, il che vuol dire, spesso, cancerogeni), specie se rapportata al trattamento sanzionatorio previsto nel nostro ordinamento penale per reati come il furto pluri-aggravato (che, sempre per ipotizzare casi concreti e tutt’altro che inverosimili, può riguardare anche una scatoletta di tonno in un supermercato), che va da tre a dieci anni, il principale elemento di debolezza (altro eufemismo) di quest’ipotesi di reato è la sua natura giuridica di mera contravvenzione, sorta di tipologia di reato “di seconda classe” prevista nel nostro ordinamento, che in materia istituisce un sistema bipartito: le contravvenzioni, per l’appunto, ed i delitti, i reati più importanti.
È la natura contravvenzionale in sé del reato di discarica abusiva, o “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” che dir si voglia, a creare alla radice le condizioni dell’ineffettività della tutela penale del bene ambiente a fronte delle letali, anche perché sempre più diffuse, aggressioni costituite da chi usa o fa usare il proprio terreno per sversarvi tonnellate di ogni più pestifera porcheria.
La natura di contravvenzione, infatti, impedisce di per sé stessa che in ordine ad un determinato reato si possano adottare misure cautelari (tranne il sequestro), si possano disporre intercettazioni telefoniche (anche se fra un po’, in grazia delle note modifiche legislative, non sarà facilissimo neanche trovare delitti nei cui procedimenti si possa usare questo mezzo d’indagine) ecc…. Insomma, che si possano svolgere da parte del P.M. indagini serie per provare ad arrivare ad una sentenza di condanna che, pure, nella più parte dei casi e per una variegata gamma di motivi (sospensione condizionale della pena, affidamento in prova ai servizi sociali ecc….), in relazione ad una contravvenzione non sarebbe portata a concreta esecuzione.
Ma v’è di più.
Attribuire ad un reato natura di contravvenzione, di fatto, per come è ridotta oggi la nostra “macchina della giustizia”, significa impedire in merito a quel reato, in una enorme quantità di casi, la stessa concreta possibilità di una condanna definitiva, a causa del famigerato meccanismo della prescrizione, ossia l’estinzione del reato, e dunque del processo, derivante dal decorso del tempo; significa, cioè, garantire in partenza, in un’intollerabile numero di casi, l’impunità agli autori di questo reato.
Per le contravvenzioni, infatti, i tempi di prescrizione sono di quattro anni, prorogabili a cinque nel caso in cui durante il procedimento vi sia stato un atto interruttivo del termine prescrizionale.
In cinque anni, in Italia, in molti, troppi procedimenti penali non si arriva neppure alla sentenza di primo grado; figuriamoci, dunque, in quanti procedimenti possa realisticamente prevedersi di potersi arrivare alla sentenza definitiva, quella, cioè, che di regola arriva dopo tre gradi di giudizio.
Questo ameno scenario da indulgenza plenaria preventiva riguarda tutti i reati contro l’ambiente previsti nel nostro ordinamento, dacché la qualifica di contravvenzioni è riservata a tutti i reati contro l’ambiente, tranne l’ipotesi di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, statuita all’ art. 260 del T.U., unica ipotesi delittuosa prevista dallo stesso Testo Unico, nonché, più in generale, in quest’ambito penalistico.
Il 24 aprile 2007 il Governo Prodi aveva approvato un disegno di legge che introduceva nel codice penale i delitti contro l’ambiente.
Al netto di critiche dottrinarie preventive curiosamente zelanti e puntute, anche perché spesso provenienti da parte di preclari studiosi che avevano brillato prima e continuano a brillare oggi (che il progetto di legge è stato affossato) per la loro serafica e, soprattutto, silente acquiescenza di fronte alla situazione di generalizzata impunità in questo contesto sopra tratteggiata, si trattava di un’iniziativa legislativa doverosa da parte di quell’Esecutivo, ma non per questo meno apprezzabile.
Gli attentati contro l’ambiente diventavano finalmente delitti e venivano introdotti direttamente nel codice penale, segno notorio, in un qualsiasi ordinamento, di attribuita centralità all’illecito penale in questione; si apprestava un apparato sanzionatorio di tutto rispetto alle varie fattispecie incriminatrici istituite; si mettevano, quindi, i magistrati nella condizione di perseguire effettivamente gli autori di questi crimini.
Ma, soprattutto, ed era questa forse la novità più significativa di tutta l’operazione, si prevedeva l’applicabilità anche a questa gamma di reati della normativa in materia di responsabilità amministrativa da reato delle imprese, prevista dalla legge 231\2001, il provvedimento legislativo, cioè, che istituisce una serie di sanzioni, di natura pecuniaria ed interdittiva, direttamente a carico degli enti nel cui interesse il reato sia stato compiuto. In questo modo si responsabilizzavano direttamente le imprese e le si spingeva ad adottare, all’interno del loro ciclo produttivo – commerciale, un modello organizzativo utile ad azzerare, o quantomeno ad abbattere notevolmente, a monte le possibilità di commissione di reati contro l’ambiente legati alla vita, ma soprattutto agli interessi, dell’azienda in questione.
Insomma, con il disegno di legge in esame pareva che il governo provasse sul serio a garantire una tutela penale all’ambiente.
Meno di un anno dopo quel 24 aprile 2007 il governo Prodi cadde miseramente, e con lui precipitò in un baratro di oblio, quando non di vero e proprio boicottaggio, anche la sola idea di codificazione dei delitti contro l’ambiente. Ça va sans dire, giacché il governo ed il parlamento che sono venuti dopo, dallo stesso momento del loro insediamento, non si sono propriamente coperti di gloria ambientalista.
In conclusiva sintesi, oggi in Italia i reati contro l’ambiente sono ancora (e chissà ancora per quanto), in sostanza, crimini senza castigo, il che vuol dire che oggi in Italia l’ambiente è sostanzialmente senza tutela penale, ossia, per molti versi, senza tutela; con buona pace delle direttive europee, della sempre crescente sensibilità mondiale in questa materia, ma, soprattutto, di quella che in Ecuador oggi verrebbe considerata la vera parte lesa da questi reati: “la Pacha Mama”, la Madre Natura.
Almeno in questo caso, verrebbe da dedurne con un vago senso di desolazione, per garantirci un livello di civiltà e di salubrità ambientale un po’ più dignitoso, a migrare verso un paese “in via di sviluppo” dovremmo essere noi che viviamo in un paese “sviluppato”.


Fasano, 2 agosto 2009


 

* Avvocato in Fasano

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 15/09/2009

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