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PREVIDENZA PUBBLICA E PRIVATA DOPO LA LEGGE DELEGA N. 243 DEL 23 AGOSTO 2004 (1)

Antonino Sgroi




Sommario: 1. Obiettivi perseguiti dal legislatore e modelli relazionali fra norme utilizzati per il loro raggiungimento – 2. Norme di attuazione immediata – 2.1.A. Benefici connessi al differimento del pensionamento - 2.1.A.a. Profili di legittimità costituzionale e di carattere economico conseguenti dall’applicazione della norma nei confronti dei lavoratori che utilizzano il precedente modello a ripartizione – 2.1.A.b Ambito di applicazione del beneficio – 2.1.B. Certificazione del diritto a pensione – 2.2. Norme di immediata attuazione necessitanti dell’emanazione di decreti ministeriali – 2.2.A. Creazione casellario assicurati – 2.2.B. Inquadramento aziende e lavoratori autonomi e parasubordinati – 2.3. Legislazione delegante – 2.3.A. Totalizzazione – 2.3.B. Riduzione onere contributivo – 2.3.C. Emersione lavoro sommerso pensionati – 2.3.D. Estensione dell’ambito di applicazione delle disposizioni in materia di contribuzione figurativa e di contribuzione volontaria – 2.4. Previdenza complementare – Profili di carattere generale.


1. Obiettivi perseguiti dal legislatore e modelli relazionali fra norme utilizzati per il loro raggiungimento.

I fini perseguiti con riguardo alla previdenza obbligatoria e complementare, dalla riforma dell’agosto 2004, sono elencati dallo stesso legislatore al primo comma dell’art. 1, laddove lo stesso assegna al Governo il compito di emanare una normazione delegata intesa a:
a) liberalizzare l’età pensionabile;
b) eliminare progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi di lavoro;
c) estendere l’ambito di efficacia del principio di totalizzazione anche alle ipotesi in cui si raggiungano i requisiti minimi per il diritto alla pensione in uno dei fondi presso cui sono accreditati i contributi;
d) sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari.

In realtà il raggiungimento dei citati obiettivi all’interno del sistema previdenziale obbligatorio e privato, contrariamente a tale incipit, è perseguito non solo tramite la legislazione delegata, ma altresì attraverso l’introduzione nel sistema previdenziale, in specie quello obbligatorio, di una legislazione a diretta efficacia o, la cui efficacia è mediata dall’intervento dell’esecutivo con l’emanazione di decreti ministeriali.
Tale constatazione sfocia a evidenziare come la legge in questione piuttosto che essere, come di primo acchito potrebbe apparire, una semplice legge delega, sia un atto legislativo complesso costituito da norme deleganti, norme di immediata applicazione, norme di immediata applicazione ad efficacia temporale differita, norme mediate nella loro applicazione da decreti ministeriali. Si osservi che tale modello normativo non è la prima volta che è stato utilizzato nella nostra materia (il precedente di riferimento può esemplificativamente essere rappresentato dalla legge n. 335 dell’agosto 1995) e la sua utilizzazione è resa manifesta dalla stessa intitolazione data alla legge in commento dai conditores, infatti si parla di norme pensionistiche e deleghe al Governo.
Tutto questo comporta la necessità metodologica non solo di distinguere fra disposizioni attinenti alla previdenza obbligatoria e alla previdenza complementare ma, all’interno di ciascuno dei micro-sistemi evidenziati, la necessità di disaggregare per tipi normativi le disposizioni introdotte dalla novella legislativa.
Di primo acchito, a suffragio di quanto sin qui detto, basti rammentare:
- la norma in tema di incentivo per il differimento del pensionamento (immediatamente applicabile);
- la norma che fissa nuove criteri per il pensionamento (immediatamente applicabile ma ad efficacia differita, il gennaio 2008);
- le norme in tema di inquadramento delle aziende e di istituzione del casellario giudiziale (disposizioni a efficacia immediata, ma che necessitano del varo di decreti ministeriali);
- le norme in tema di destinazione del trattamento di fine rapporto al finanziamento della previdenza complementare, queste sì norme deleganti.

L’indagine proseguirà pertanto suddividendo, piuttosto che tra disposizioni riguardanti la previdenza obbligatoria e quella complementare, tra disposizioni immediatamente applicabili, disposizioni immediatamente applicabili ma a efficacia differita, disposizioni a efficacia immediata ma che necessitano del varo di decreti ministeriali e, infine, disposizioni deleganti vere e proprie.
Resta comunque inteso che, fermi restando i limiti dell’odierna trattazione, si privilegerà la trattazione, più o meno estesa, di quegli argomenti che appaiono di maggior rilievo, con tutti i limiti connessi a una scelta di tal fatta.



2. Previdenza obbligatoria.

2.1. Norme di attuazione immediata.

Le disposizioni su cui si è soffermata l’attenzione dei primi commentatori hanno ad oggetto i benefici connessi al differimento del pensionamento e la certificazione dell’acquisito diritto al pensionamento (norme entrambe ad efficacia diretta e immediata).
Proprio da questi due istituti si inizierà l’esposizione delle più rilevanti novità introdotte dal legislatore con la legge in commento.

2.1.A. Benefici connessi al differimento del pensionamento.

Il legislatore, al fine di incentivare il posticipo del pensionamento, ai fini del contenimento degli oneri nel settore pensionistico, per il lasso temporale che intercorre fra l’anno 2004 e l’anno 2007, riconosce ai soli lavoratori dipendenti del settore privato, che abbiano maturato i requisiti minimi per l’accesso alla pensione di anzianità, fissati dai commi sesto e settimo dell’art. 59, dalla tabella C) della legge n. 449 del 1997 e dalla tabella B) allegata alla legge n. 335 del 1995, il potere di rinunciare all’accredito contributivo relativo all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti e alle forme sostitutive della medesima (art. 1, comma 12°. Primo periodo).
Contestualmente lo stesso legislatore procede all’abrogazione espressa dell’art. 75 della legge 23.12.2000, n. 388 (si tratta del 17° comma, del citato art. 1), che dettava una disciplina in tema di incentivi all’occupazione dei lavoratori anziani sempre del settore privato.
Allorquando sia esercitata tale facoltà si riconosce:
a) in capo al datore di lavoro il venir meno dell’obbligo legislativamente fissato di versamento della contribuzione previdenziale, all’Ago e alle sole forme sostitutive di questa limitatamente alla contribuzione per invalidità, vecchiaia e superstiti, a decorrere dalla prima scadenza utile per il pensionamento di anzianità e successiva al momento di esercizio del potere di posticipo (comma ult. cit., secondo periodo);
b) in capo al lavoratore, a decorrere dallo stesso momento in cui sorge l’esonero dall’obbligo del versamento della contribuzione a carico del suo datore di lavoro, il diritto a percepire la somma che il datore di lavoro avrebbe dovuto versare a titolo di contribuzione previdenziale se non vi fosse stata esercitata la menzionata potestà (comma cit., terzo periodo);
c) che le somme riscosse dal lavoratore a seguito del posticipo di pensionamento di anzianità non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente ai fini dell’imposizione tributaria (comma 14°, che introduce la lettera i-bis) all’art. 51 del d.P.R. 22.12.1986, n. 971);
d) la liquidazione del trattamento pensionistico di anzianità in una misura pari a quella che sarebbe spettata alla data della prima scadenza utile per il pensionamento prevista dalla legge vigente e successiva alla data dell’esercizio della facoltà di posticipo, sulla base dell’anzianità contributiva maturata alla data della medesima scadenza (comma 13°, primo periodo);
e) l’aumento del trattamento pensionistico così determinato per effetto della rivalutazione automatica al costo della vita durante il periodo di posticipo del pensionamento (comma ult. cit., secondo periodo).

L’estensione della facoltà al settore pubblico è affidata al medesimo legislatore che potrà emanare disposizioni ad hoc, previo confronto con le OO.SS. comparativamente più rappresentative dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro, le regioni, gli enti locali e le autonomie funzionali, tenendo conto delle specificità dei singoli settori coinvolti e dell’interesse pubblico connesso all’organizzazione del lavoro e all’esigenza di efficienza dell’apparato amministrativo pubblico (art. 1, secondo comma, lett. p).

Il modello delineato dal legislatore, nelle intenzioni dello stesso, prevede l’intervento del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, che con decreto stabilisce le modalità di attuazione del descritto beneficio (pertanto anche questa normativa, secondo la ripartizione espositiva retro delineata dovrebbe rientrare fra la normazione ad efficacia diretta mediata dalla decretazione amministrativa; ma, stante il fatto che è l’unico istituto introdotto dal testo legislativo per il quale, a quel che consta, vi è stata l’immediata emanazione della necessaria decretazione ministeriale, si è preferito trattarne in questa sede).
Il Ministero, nell’adempimento dei compiti affidatigli dal legislatore, ha emanato il decreto del 6 ottobre 2004, seguito da un comunicato di rettifica dello stesso (questo in G. U., 14.10.2004, serie generale, n. 242, p. 60) e ha inviato una coeva lettera circolare agli enti previdenziali coinvolti.
Il decreto, oltre a ripetere il dettato legislativo, prevede che:
- la riconosciuta facoltà di opzione può essere esercitata in qualunque momento successivo al conseguimento dei requisiti per fruire del posticipo ed ha effetto fino al 31.12.2007 e comunque non oltre il conseguimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia (art. 1, terzo comma);
- il lavoratore che intende avvalersi dell’incentivo al posticipo del pensionamento deve darne comunicazione formale, per lettera, fax o e-mail (si rilevi in un documento ufficiale l’uso di un termine straniero allorquando si sarebbe potuta usare l’espressione italiana posta elettronica), alla sede territorialmente competente dell’ente previdenziale presso cui si trova la propria posizione contributiva e al proprio datore di lavoro, utilizzando un modello appositamente predisposto (art. 2, primo comma);
- l’ente previdenziale destinatario di tale comunicazione deve, entro 30 giorni dalla sua ricezione o dalla ricezione della documentazione integrativa necessaria inviare al datore di lavoro la certificazione attestante il raggiungimento dei requisiti pensionistici di anzianità (sull’utilizzo dell’istituto della certificazione da parte del legislatore si rinvia al prosieguo dell’esposizione) (art. 2, secondo comma);
- il datore di lavoro una volta ricevuta la certificazione provvede al versamento di quanto dovuto al lavoratore e, se nell’attesa di tale certificazione, ha versato contributi che non avrebbe dovuto versare li recupera detraendoli dalla contribuzione che deve versare dopo la citata ricezione (terzo comma, art. ult. cit.);
- gli enti previdenziali privatizzati - intendendosi quelli gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza di cui al decreto legislativo 30.6.1994 n. 509 e cioè, fra l’altro, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza avvocati, l’Enasarco, l’Enpam, l’Inpgi – possono adottare disposizioni simili a quelle sin qui descritte, nel rispetto dei principi di autonomia affermati dal decreto legislativo ult. cit. e dal comma dodicesimo, dell’art. 3, della l. n. 335 del 1995.
Nella coeva lettera circolare lo stesso Ministero del lavoro e delle politiche sociali:
- esclude esplicitamente dall’ambito di applicazione del potere i lavoratori delle amministrazioni pubbliche indicate dall’art. 1, secondo comma, del decreto legislativo 30.3.2001, n. 165, e cioè fra l’altro: gli Istituti autonomi delle case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, l’ARAN, le agenzia fiscali;
- limita ulteriormente l’ambito di efficacia soggettiva della facoltà, precludendola a tutti quei lavoratori iscritti all’INPDAP e all’IPOST, in quanto tali enti gestiscono forme esclusive dell’Ago (e anche se il rapporto di lavoro è di natura privatistica);
- la possibilità da parte dei lavoratori che hanno esercitato il posticipo di ritornare sui propri passi e di presentare domanda per la fruizione della pensione di anzianità;
- riconosce la possibilità di utilizzare, per il raggiungimento del requisito contributivo necessario a fruire del posticipo, la totalizzazione dei contributi italiani con quelli maturati all’estero con Paesi convenzionati con l’Italia;
- riconosce in capo al lavoratore la possibilità, alla scadenza del periodo di efficacia del posticipo, di proseguire nell’attività lavorativa nelle forme ordinarie e quindi con la reviviscenza dell’obbligo contributivo previdenziale;
- riconosce in capo al lavoratore il diritto a un supplemento di pensione da calcolarsi sulla contribuzione versata dopo l’1.1.2008.
Esaurita la ricognizione del quadro legislativo e non, disciplinante l’istituto, si può ora procedere a verificare quali possano essere gli eventuali profili problematici della disciplina.


2.1.A.a. Profili di legittimità costituzionale e di carattere economico conseguenti all’applicazione della disciplina.

E’ ragionevole pensare che l’istituto in commento troverà la sua diffusione nei confronti di soggetti per i quali si applica il modello previdenziale a ripartizione, retributivo e la cui retribuzione sia medio-alta, ciò in forza delle seguenti considerazioni:
- nel modello pensionistico introdotto dalla legge n. 335 del 1995 non esiste la pensione di anzianità, tant’è che tutti trattamenti pensionistici liquidati con il metodo contributivo, sono chiamati <<pensione di vecchiaia>> (art. 1, comma 19°, l. ult. cit.);
- l’utilizzo dell’espressione <<pensione di anzianità>>, allorquando si disciplina l’istituto in commento (art. 1, comma 12) è la spia lessicale, del fatto che lo stesso legislatore è ben conscio della circostanza che tale istituto troverà il suo ambito di efficacia soggettivo naturale nei lavoratori, il cui trattamento pensionistico è liquidato con il sistema retributivo;
- ulteriore corroborazione a tale assunto la si rinviene nel richiamo alle disposizioni, dettate in tema di accesso al trattamento pensionistico di anzianità a decorrere dall’1.1.98, dall’art. 59 della legge n. 449 del 1997.

Si può ora tentare di ricostruire quali sono i possibili evidenti effetti scaturenti dalla disciplina in commento:
- i lavoratori beneficiati, così individuati, non depauperano solo la propria posizione previdenziale futura (rinunciando per un lasso temporale legislativamente predeterminato all’accredito della contribuzione, pur continuando a lavorare) ma, aspetto ben più rilevante, depauperano le risorse apprestate dalla collettività per il pagamento delle pensioni, infatti come noto in un sistema a ripartizione quale è il nostro, la contribuzione pagata dai lavoratori non è utile a pagare la loro futura prestazione pensionistica, ma è necessaria a pagare le prestazioni pensionistiche in atto;
- il cambio, contribuzione – retribuzione, è tanto più appetibile quanto più alta è la retribuzione globale che il lavoratore percepisce normalmente e sulla quale si calcola la contribuzione previdenziale e l’imposizione fiscale, conseguentemente l’opzione non sarà redditizia per quei lavoratori il cui reddito di lavoro dipendente mensile non è talmente elevato da potere ricevere un miglioramento economico significativo dall’esercizio del posticipo;
- nel breve periodo si ottiene, per il sistema previdenziale, una traslazione temporale dell’erogazione dei trattamenti pensionistici di anzianità nei confronti di quei lavoratori che hanno fruito della facoltà concessa loro dalla legge, e parallelamente un’immediata riduzione delle risorse che affluiscono agli enti previdenziali dai lavoratori e dai datori di lavoro.

Orbene, sulla scorta di queste considerazioni, si può affermare che il guadagno di breve periodo di una determinata categoria, numericamente esigua, di lavoratori comporta:
- da un lato un risparmio del sistema previdenziale di breve periodo collegato alla citata traslazione temporale dell’erogazione delle pensioni, e di medio e lungo periodo connesso al differenziale tra prestazione pensionistica che si sarebbe erogata se vi fosse stato l’accredito contributivo anche per il lasso temporale durante il quale si è fruito da parte del lavoratore del posticipo, e prestazione che si erogherà realmente a seguito del vuoto contributivo del periodo in questione;
- da altro lato un costo immediato dello stesso sistema previdenziale, costo rappresentato dal venir meno delle risorse economiche per il pagamento dei trattamenti pensionistici in atto a seguito delle scelte operate da lavoratori, egoisti, che pur continuando a lavorare si sottraggono al dovere di cooperazione intergenerazionale sotteso al modello di previdenza tuttora esistente (ovviamente lasciando in ombra il profilo tributario), nonostante il trattamento pensionistico futuro di questi lavoratori sarà pagato da altri lavoratori con la contribuzione da questi ultimi versata.

In forza di tali assunti se si vuole ancora parlare di beneficio non del singolo ma del sistema previdenziale nel suo complesso, e il beneficio non potrà che essere di tipo squisitamente economico, lo stesso dovrebbe scaturire dalla sommatoria algebrica degli oneri maggiori sostenuti oggi per il pagamento dei trattamenti pensionistici in atto (a seguito dell’abbassamento delle risorse) unitamente al contestuale risparmio di pagamento delle pensioni di anzianità, e della decurtazione futura delle pensioni che saranno erogate ai lavoratori che oggi optano per il posticipo del pensionamento di anzianità.
La sommatoria sarà positiva solo se congiuntamente:
- la traslazione nel futuro del pagamento delle pensioni di anzianità spettanti ai lavoratori, che fruiscono del posticipo, e i maggiori costi, oggi sostenuti dalla collettività in conseguenza della riduzione delle risorse provenienti dal pagamento della contribuzione, saranno i primi superiori e i secondi inferiori alla misura dei trattamenti pensionistici erogati in futuro ai medesimi citati lavoratori in conseguenza del citato buco contributivo;
- la platea odierna dei destinatari di trattamenti pensionistici sia uguale o minore della platea futura dei pensionati che hanno oggi rinunciato all’accredito della contribuzione previdenziale per il tempo fissato dal legislatore.


2.1.A.b. Ambito di applicazione del beneficio.

Con riguardo al profilo soggettivo, lavoratori beneficiari del provvedimento, le questioni sorgono con riguardo a quei lavoratori dipendenti di enti pubblici successivamente privatizzati e che, utilizzando la facoltà loro concessa, hanno scelto di lasciare la loro posizione previdenziale presso l’I.N.P.D.A.P., o per i quali è stato lo stesso legislatore a prevedere la permanenza presso quest’ultimo ente. Nei loro confronti, persiste la vigenza delle regole generali valevoli per i dipendenti pubblici, la contribuzione per invalidità vecchiaia e superstiti è versata all’Inpdap, mentre la cd. contribuzione minore è versata all’Inps.
Con l’ulteriore e necessaria precisazione che la misura della contribuzione dovuta, stante il fatto che il rapporto di lavoro in questione è privato, sarà fissata secondo le regole generali valevoli per i lavoratori dello stesso settore iscritti all’Inps.
Secondo il decreto ministeriale dell’ottobre 2004, i citati lavoratori non possono fruire del posticipo proprio perché iscritti a forme previdenziali esclusive dell’iscrizione all’Ago ma, allo stesso tempo, è strutturalmente impossibile che questi siano destinatari della normazione concordata, di cui al 2° c. lett. p), chiamata a disciplinare l’istituto del posticipo nei confronti delle amministrazioni pubbliche in quanto dipendenti di imprese private, con la conseguenza che solo per questi lavoratori sarà impossibile, proprio perché non rientrano nell’una o nell’altra categoria, richiedere di potere posticipare il pensionamento.
La soluzione a cui si è pervenuti non appare delle più soddisfacenti, né pare che l’approdo possa essere diverso, utilizzando forme di interpretazione finalizzata del testo del comma dodicesimo, stante l’esplicito riferimento, in questa disposizione, alla sola Ago e alle forme sostitutive della stessa, anch’esse gestite dall’Inps, e la circostanza ulteriore che l’applicazione concordata dell’istituto, di cui alla cit. lett. p), attiene certamente ai lavoratori iscritti alla forma esclusiva.
Le due disposizioni, a ben vedere, pertanto lasciano non normata una fattispecie di rilevante applicabilità, anche se sotto il profilo contenutistico la stessa è più vicina all’Ago e l’estensione della regola del posticipo agli individuati lavoratori non apporterebbe alcun danno economico alla pubblica amministrazione – datore di lavoro, per la semplice constatazione che il datore di lavoro è privato e dall’aumento della retribuzione erogata non scaturirebbe alcun aggravio per il bilancio pubblico.

Con riguardo al profilo oggettivo i contributi, nei cui confronti trova applicazione la disposizione, sono solo quelli che riguardano l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti posti a carico, in percentuali diverse, del lavoratore e del datore di lavoro, conseguentemente entrambe le citate parti saranno tenute a continuare a pagare la contribuzione previdenziale alle cc. dd. assicurazioni minori e, se esistente un fondo di previdenza integrativa, la contribuzione dovuta a quest’ultimo.

Come detto retro, il mancato accredito della contribuzione previdenziale, per il periodo durante il quale il lavoratore ha fruito del posticipo, comporta l’erogazione di una pensione di anzianità in misura ridotta rispetto a quella a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto, se anche per il periodo in questione vi fosse stato il versamento contributivo; ma tale mancata contribuzione riverbera i suoi effetti anche sulle prestazioni di invalidità e inabilità, allorquando il lavoratore richieda l’assegno ordinario di invalidità o la pensione di inabilità, o sulle prestazioni ai superstiti erogate a seguito della morte del lavoratore.
In questi due casi pare certo che l’adesione al posticipo non conduca nemmeno a benefici economici di breve periodo nei confronti del lavoratore, che richieda le prestazioni della legge n. 222 del 1984, o degli eredi di costui.
Nella prima ipotesi o potrebbe essere precluso l’accesso alle prestazioni, stante il vuoto contributivo, o il quantum della prestazione erogata risente, al pari della pensione di anzianità, del mancato versamento della contribuzione; identico risultato è quello a cui si perviene con riguardo alla seconda ipotesi, la pensione di reversibilità.
 


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Il datore di lavoro è il soggetto incaricato di pagare al lavoratore le somme che, in mancanza del posticipo, sarebbero state pagate a titolo di contribuzione Ivs.
Tale pagamento potrà avvenire solo dopo che l’ente previdenziale abbia certificato (sulla certificazione si v. infra 2.1.B.), ai sensi del terzo comma dell’art. 1, il venir in essere in capo al lavoratore di tutti i requisiti legislativamente previsti per la fruizione della pensione di anzianità.
In attesa di tale certificazione il datore di lavoro è tenuto a pagare la contribuzione previdenziale, solo nel momento in cui perverrà la certificazione, il datore di lavoro potrà, per il futuro, non pagare la contribuzione e contestualmente girare le somme a tale titolo dovute al lavoratore. Per il passato, cioè per il lasso temporale che vi è stato fra presentazione della domanda di posticipo ed invio della certificazione da parte dell’ente previdenziale (secondo le intenzioni espresse nel decreto ministeriale del 6 ottobre il tempo massimo di rilascio della certificazione dovrebbe essere di trenta giorni [art. 2, secondo comma]. Ma che succede se l’ente non rispetta il termine?), procedere al recupero delle somme erogate all’ente previdenziale attraverso la compensazione di queste con la contribuzione che mensilmente il datore di lavoro è tenuto a pagare.

Il legislatore non disciplina in modo alcuno l’ipotesi patologica di un datore di lavoro che non provveda a pagare le somme scaturenti dal posticipo al lavoratore, dopo che l’ente previdenziale ha inviato la certificazione di legge, nonostante allo stesso tempo sia stato esentato dal versamento contributivo nei confronti del medesimo lavoratore.
E’ da chiedersi innanzitutto, in un’ipotesi di tal fatta, se il mancato pagamento attenga alla retribuzione o, all’opposto, attenga alla contribuzione previdenziale, essendo chiaro che accedendo all’una o all’altra delle due soluzioni si avranno diversi spazi di tutela del lavoratore.
In via di prima approssimazione si può affermare che la fruizione del posticipo non comporta una cesura fra rapporto di lavoro e rapporto previdenziale, tant’è che, come retro evidenziato, da un verso persiste l’obbligo del versamento contributivo alle assicurazioni cc. dd. minori e ai fondi di previdenza complementare, se questi esistenti e se il lavoratore sia ad essi iscritto. Da altro verso, quello delle prestazioni, il lavoratore ha diritto a fruire di tutte le prestazioni previdenziali riconosciute a qualsivoglia lavoratore.
Chiarito ciò possono delinearsi gli effetti che scaturiscono accedendo all’una o all’altra tesi.
Se si accetta che il mancato pagamento delle somme in favore del lavoratore, a seguito del posticipo di pensionamento, costituisca una violazione del diritto di credito vantato dal lavoratore a titolo di retribuzione consegue che:
- solo il lavoratore è il soggetto titolato a chiedere l’adempimento e a perseguire il datore di lavoro inadempiente;
- il buco contributivo, connesso al posticipo, permane sino a quando il lavoratore non rinuncia a questo beneficio;
- l’ente previdenziale non ha alcun titolo per il recupero della contribuzione previdenziale omessa, in forza della precedente espressa volontà del lavoratore di accedere al citato istituto.
Se, all’opposto, si accede alla ricostruzione che l’omissione resta un’omissione previdenziale e non un’omissione retributiva, stante il fatto che le somme percepite dal lavoratore sono somme che spetterebbero, in mancanza dell’opzione a posticipare il diritto al pensionamento di anzianità, consegue che:
- il titolare del credito è esclusivamente l’ente previdenziale e sarà questo il soggetto titolato al recupero coattivo del credito;
- l’inadempimento, con riguardo alla posizione previdenziale del lavoratore, non avrà effetti di sorta in quanto opera il noto principio di automatismo delle prestazioni, come se la copertura previdenziale del lavoratore fosse integra e integrale;
- dal momento dell’inadempimento da un verso riprende efficacia l’obbligazione contributiva con riguardo all’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e, da altro verso (se si vuole rimanere coerenti al ragionamento sin qui condotto), il lavoratore potrà solo scegliere se continuare a lavorare con le ordinarie e generali forme di contribuzione previdenziale o, all’opposto, di fruire della pensione di anzianità immediatamente.
Pare che entrambe le ipotesi suddelineate abbiano ragionevoli motivi di sostegno, con la conseguenza che la soluzione debba essere affidata a giudizi di valore radicantesi sulle finalità di tutela dello Stato sociale, al cui interno si deve porre anche l’istituto qui investigato (forse gli approdi potrebbero mutare se il posticipo del pensionamento di anzianità fosse chiamato a operare all’interno di un sistema previdenziale a capitalizzazione, contributivo).
Finalità collettive del welfare State che, a parere di chi scrive, devono prevalere su finalità egoistiche e personali, anche se proprio queste hanno spinto il lavoratore a fruire del posticipo, ignorando il patto intergenerazionale che nel modello di previdenza a ripartizione lega, recte dovrebbe legare, tutti i lavoratori per un miglioramento delle condizioni di vita della categoria di cui fanno parte. Miglioramento che ovviamente si deve riverberare sulle condizioni di vita di ciascun membro di questa categoria, e non per il miglioramento delle condizioni di vita del singolo, ignorandosi più o meno colpevolmente, che tale miglioramento è a detrimento dell’intera categoria.

2.1.B. Certificazione del diritto a pensione.

Il legislatore assegna a un istituto, noto al micro-sistema previdenziale, introdotto per la prima volta con l’art. 54 della legge 8.3.1989, n. 88 (legge di ristrutturazione dell’Inps e dell’Inail), un nuovo compito, quello di garantire, per l’eternità, ai lavoratori - siano essi dipendenti o autonomi, appartenenti al settore privato o pubblico - che abbiano maturato entro il 31.12.2007, i requisiti di età e di anzianità contributiva previsti dalla normativa vigente prima della data di entrata in vigore della legge n. 243 del 2004, il diritto all’accesso al trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità, nonché alla pensione di vecchiaia nel sistema contributivo ai sensi del comma 19° dell’art. 1, della legge n. 335 del 1995 (art. 1, terzo comma).

E’ opportuno prima di verificare le novità introdotte dal legislatore, soffermarsi su come l’istituto in questione abbia trovato concreta applicazione nella nostra materia, al fine di verificare se le soluzioni accolte, per la risoluzione dei problemi che si sono posti nell’applicazione della disciplina dettata dal cit. art. 54, possono essere utilizzate per la soluzione di problemi omologhi che potrebbero sorgere dall’applicazione del nuovo testo legislativo in tema di certificazione.

L’art. 54, legge ult. cit., garantisce al lavoratore “…il diritto all’informazione in ordine alla sua situazione previdenziale e pensionistica…”, diritto che in precedenza mancava, e “conferisce alle certificazioni ottenute rilevanza probatoria tale da potere fare affidamento su di esse.”
Si riconosce in capo al lavoratore un diritto all’informazione sulla propria posizione previdenziale e, con riguardo al documento in cui si invera tale diritto, la nascita dallo stesso di un affidamento in capo al lavoratore medesimo, che legittimamente presume essere quella descritta la propria posizione contributiva.


La disposizione in commento nel suo primo periodo pone a carico degli enti previdenziali un obbligo di comunicare i dati relativi alla situazione previdenziale e pensionistica. Tale obbligo scaturisce esclusivamente da una previa richiesta fatta dallo stesso interessato o da soggetto terzo che sia autorizzato a ciò dalla legge o su delega dell’interessato medesimo.
Questa prima parte della norma consente, per quel che attiene al tema qui investigato, di fare una serie di brevi considerazioni.
Gli enti previdenziali, che istituzionalmente sono preposti alla tutela dei lavoratori verificando il corretto adempimento dei versamenti contributivi dai quali scaturisce il diritto alle prestazioni previdenziali, hanno la possibilità di conoscere quale sia la situazione di ogni singolo lavoratore accedendo ai propri archivi, il legislatore con l’art. 54 ha previsto che tale notizia debba essere comunicata al diretto interessato, ogniqualvolta questi lo richieda.
Lo stesso art. 54, al secondo periodo, recita: “La comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta”.
Una volta descritto il contenuto della disposizione è necessario chiedersi in che cosa consista il quid della certificazione rilasciata dagli enti e quale sia la funzione che a essa assegna l’ordinamento.
Si deve ritenere che il legislatore del 1989, con il termine certificazione, abbia voluto indicare come la dichiarazione di scienza, in punto situazione previdenziale, portata a conoscenza del lavoratore, sia il frutto di un procedimento interno all’ente di ricognizione delle fonti in suo possesso, dichiarazione esternata necessariamente con uno scritto, il certificato, e tesa a dare certezza al lavoratore sulla propria posizione.
Sugli enti previdenziali, in forza del dettato legislativo, incombe l’obbligo di emettere la certificazione per cui ricevono la domanda dopo avere provveduto a un’acquisizione secondaria di scienza (ricognizione di una scienza già acquisita).
Acclarato che il certificato rilasciato dall’Inps o dall’Inail consiste in una ricognizione della scienza in possesso di tali enti con riguardo alla posizione previdenziale del lavoratore, posizione naturalmente dinamica e che pertanto può essere fotografata al momento della domanda del lavoratore, ben potendo successivamente evolversi, portato a conoscenza di quest’ultimo e in cui si danno certezze, non resta da verificare quale sia la funzione di questa certezza e, parallelamente, quali possano essere i rimedi apprestati dall’ordinamento allorché, a posteriori, il lavoratore scopra che i dati comunicati non siano veritieri.
La funzione, che generalmente è assegnata ai certificati rilasciati dagli enti a seguito di un obbligo posto a loro carico dall’ordinamento, è quella di costituire efficacia di certezza legale, con la conseguenza che nessuno, al di fuori ovviamente dello stesso soggetto che ha emanato l’atto dotato di tale qualità, può assumere che il fatto recte la dichiarazione di scienza effettuata e certificata non è conforme ai dati conservati dall’ente.
Ma è ora da chiedersi cosa accada nell’eventualità che la dichiarazione di scienza degli enti previdenziali, su cui i lavoratori destinatari hanno fatto affidamento, non sia conforme al dato in loro possesso ed evincibile, si ripete, dalla sola ricognizione degli archivi, cartacei o informatici che siano.
Qualora accada ciò, ovviamente, si deve riconoscere agli enti previdenziali, al pari di quel che accade per qualsiasi pubblica amministrazione, che hanno errato, il diritto-dovere di correggere autonomamente il proprio certificato e, contestualmente, gli stessi avranno il dovere di comunicare siffatto nuovo certificato al lavoratore destinatario del precedente.
Sin qui nulla quaestio, ma cosa accade se, nelle more dell’emanazione fra il primo e il secondo certificato, il lavoratore destinatario, proprio facendo affidamento sulla natura di certezza legale scaturente dall’atto amministrativo – certificazione, assume delle decisioni che non avrebbe assunto se fosse stato a conoscenza della erroneità del citato atto?
La giurisprudenza ha ritenuto che dall’errore della certificazione sorge in capo all’ente previdenziale una responsabilità contrattuale.
Responsabilità in forza della quale dovrà rispondere dei danni patiti dal lavoratore, danni il cui importo potrà essere limitato a seguito dell’applicazione nel caso di specie del disposto dell’art. 1227 cod. civ.
Il danno conseguente alla certificazione erronea della posizione previdenziale, rilasciata dai citati enti previdenziali, quale regola generale è imputabile a questi ultimi ogniqualvolta lo stesso rappresenti il frutto di un comportamento dei dipendenti degli enti medesimi o di un cattivo funzionamento degli archivi, ove sono custoditi i dati, ivi compreso l’utilizzo di un software, per la lettura e l’assemblaggio dei dati contenuti nei citati archivi, progettato erroneamente. Cattivo funzionamento prevedibile e prevenibile se fossero state poste in essere da parte dei citati enti tutti quegli accorgimenti tecnici che la migliore tecnica, nel momento in cui è stata rilasciata la certificazione, suggeriva e che sarebbero stati idonei, se adottati, a eliminare, o quanto meno a ridurre, errori.
Si deve ritenere che, in un’organizzazione complessa quale è un ente previdenziale, le uniche ipotesi di causa non imputabile, in forza della quale l’ente si sottrarrebbe alla delineata responsabilità contrattuale, si debbano rinvenire in guasti tecnici o di progettazione softwares di tale importanza e gravità da non potere essere evitati con l’utilizzo delle migliori tecniche e conoscenze e il cui venir in essere ha comportato l’emanazione di una certificazione contenente dati non conformi a quelli contenuti negli archivi gestiti dall’ente previdenziale.
Una volta delineato sommariamente il quadro di riferimento, legislativo e giurisprudenziale, con riguardo all’istituto della certificazione, così come introdotto dall’art. 54 della l. cit., si può ora verificare la possibilità o meno della traslazione dei risultati di cui si è fatto menzione anche con riguardo alla certificazione introdotta nel testo legislativo in commento.


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Constatato che la certificazione, con riguardo alla posizione contributiva del lavoratore richiedente ai fini della maturazione del diritto a pensione, trovava cittadinanza nel sistema previdenziale ancor prima dell’odierna legge, ne consegue che il grado di novità di quest’ultima è da individuarsi nella circostanza che con essa il legislatore consegna al lavoratore, che lo richiede, un atto amministrativo da far valere per il futuro nei confronti dello stesso legislatore, allorquando dovessero essere modificati i criteri di accesso ai trattamenti pensionistici, e nella possibilità di fruizione del beneficio del posticipo del pensionamento di anzianità (per il quale si v. retro).
Secondo la disciplina in commento il lavoratore, senza ulteriore specificazione di sorta, ha il diritto di chiedere all’ente previdenziale di appartenenza la certificazione dell’avvenuto raggiungimento del diritto alla prestazione pensionistica. Una volta ottenutala, il lavoratore avrà il diritto a vedere computati i periodi di anzianità contributiva maturati sino alla data di conseguimento del diritto a pensione, per l’individuazione della misura della stessa, secondo i criteri vigenti prima della data di entrata in vigore della legge n. 243 (quarto comma).
Lo stesso lavoratore potrà, in qualsiasi momento successivo alla certificazione, chiedere la liquidazione del trattamento pensionistico secondo le regole vigenti ante legge n. 243 e, affermazione a valenza politico-giuridica ancor più importante, senza che su tale liquidazione possano incidere modifiche legislative successive.

Si deve ritenere che, anche per questa certificazione, siano valevoli le conclusioni di cui supra in punto efficacia di certezza legale della stessa e possibilità da parte degli enti previdenziali che l’hanno emanata, una volta constatata la sua erroneità, di procedere al suo annullamento e all’emanazione di altra, conforme ai dati di archivio.

In questa ipotesi, al pari dell’ipotesi di certificazione precedente, la questione di immediata rilevanza, che potrebbe scaturire dall’applicazione della disposizione, attiene agli effetti di una certificazione errata o perché non conforme a quanto esistente negli archivi dell’ente previdenziale che l’ha rilasciata o, aspetto ancor più rilevante, è il frutto di una dichiarazione resa dallo stesso lavoratore, se autonomo, o dal datore di lavoro, se si tratta di lavoratori dipendenti, con riguardo agli anni a ridosso della domanda di rilascio certificazione.
E’ da chiedersi se preso atto, in un momento successivo al rilascio della certificazione, dell’erroneità della stessa, per inesistenza di parte della contribuzione utilizzata, proprio per affermare l’avvenuta maturazione del diritto a pensione, permanga o meno la validità dell’atto amministrativo e, successivamente qualora si affermi che tale inesistenza dei presupposti fattuali conduca alla rimozione con efficacia ex tunc dell’atto, su chi si debbano allocare, l’ente previdenziale o il lavoratore, gli effetti di tale errore.
Il primo quesito appare di agevole soluzione, soluzione fra l’altro accolta con riguardo all’art. 54, una volta che lo stesso ente previdenziale abbia constatato la mancanza di una parte dei contributi necessari alla maturazione del diritto a pensione, lo stesso provvederà alla rimozione della certificazione dandone comunicazione all’interessato, il solo lavoratore nell’ipotesi delineata dal terzo comma, agli interessati, lavoratore e datore di lavoro nell’ipotesi delineata dal dodicesimo comma.
La rimozione non potrà avere che la stessa efficacia temporale dell’atto di certificazione rimosso, con la conseguenza che lo stesso è come se non fosse mai stato emesso, non potendo quindi scaturire in capo al lavoratore, e al datore di lavoro nell’ipotesi di posticipo, alcuno dei diritti disciplinati dalla legge in commento.

Chiarito questo primo aspetto, resta da chiarire quello ulteriore connesso all’individuazione del soggetto a cui carico l’ordinamento pone gli effetti conseguenti a tale rimozione; sul punto sembra opportuno distinguere fra certificazione erronea nell’accesso al posticipo e certificazione erronea da utilizzare in futuro per la cristallizzazione dei criteri di liquidazione della pensione.
Nella prima delle suddelineate ipotesi, la rimozione della certificazione porta con sé la decadenza dal diritto al posticipo, il ripristino dell’obbligo contributivo con riguardo alla sola contribuzione IVS, l’unica il cui pagamento è sospeso, nelle forme generali, in capo al datore di lavoro e al lavoratore dipendente (per la parte a suo carico), il sorgere di un’omissione contributiva per il periodo intercorso fra l’emanazione della certificazione e la sua rimozione (preterendo in questa sede i connessi aspetti fiscali).
Gli interessi coinvolti dalla rimozione della certificazione, e da ultimo evidenziati, possono riguardare comportamenti passati o futuri.
Nel primo caso si dovrà provvedere da parte dell’ente previdenziale al recupero della contribuzione previdenziale per il periodo di posticipo fruito, qualora il datore di lavoro non provveda spontaneamente al pagamento di questa (ivi compresa quella a carico del lavoratore medesimo), non appena avuto formale notizia della revoca della certificazione.
La questione ulteriore, interna a questo caso, riguarda il sorgere o meno, contestualmente all’obbligo contributivo, delle sanzioni civili ai sensi della legge n. 388 del 2000.
Pare che queste - nonostante la regola generale, secondo la quale esse costituiscono effetto automatico dell’inadempimento contributivo - possano essere legittimamente richieste solo allorquando l’erroneità della certificazione si radichi su dichiarazioni rese dal datore di lavoro o dal lavoratore, se autonomo. Giammai si potrà predicare il sorgere delle sanzioni quando l’errore è stato compiuto proprio dallo stesso ente che ha emanato l’atto amministrativo.
La soluzione muta nel momento in cui il datore di lavoro, una volta che abbia avuto contezza dell’erroneità della certificazione, continui a fruire dei benefici economici connessi al posticipo, non provvedendo a pagare la contribuzione previdenziale dovuta. Allorché sorga tale fattispecie si deve ritenere che le sanzioni siano dovute nelle usuali forme.
Ultimo profilo, interno a questa prima ipotesi, riguarda l’esistenza o meno di un danno in capo al lavoratore che si veda prima riconoscere e poi disconoscere il diritto al posticipo. Di primo acchito non pare si possa predicare l’esistenza di un danno in capo al lavoratore perché in conseguenza dell’annullamento del provvedimento di certificazione, le somme di denaro che avrebbe percepito non sono per lo stesso irrimediabilmente perse, ma le stesse permangono nel suo patrimonio, tant’è che le stesse saranno utili per il calcolo della pensione di anzianità futura allorquando verranno in essere i requisiti di legge per l’erogazione della stessa.
Nella seconda ipotesi, effetti rimozione certificazione errata sulla cristallizzazione del diritto di accesso a pensionamento, bisogna innanzitutto individuare il momento in cui la rimozione è avvenuta, se prima o dopo la presentazione della domanda di pensionamento, specificando sin da ora che effetto immediato della rimozione è l’utilizzo per il calcolo del trattamento pensionistico da richiedere o richiesto dei nuovi parametri introdotti dalla legge n. 243 del 2004 o da leggi successive a questa.
Allorché tali parametri siano più gravosi dei precedenti, con riguardo all’innalzamento dell’età anagrafica o della contribuzione, l’eventuale danno sarà costituito, esemplificando, dal differenziale fra il trattamento economico a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto con l’applicazione della previgente disciplina sulla tranche di contribuzione versata sino al 31.12.2007, e quello a cui avrebbe avuto diritto con l’applicazione dei nuovi criteri introdotti con la legge n. 243 o successive alla stessa.
Il danno rimarrà a carico del lavoratore qualora la certificazione errata scaturisca da informazioni dallo stesso fornite all’ente previdenziale, per il rilascio da parte di quest’ultimo della certificazione; all’opposto il danno dovrà essere ristorato dal datore di lavoro o dallo stesso ente previdenziale quando lo stesso trovi la sua causa o nelle dichiarazioni fornite dal primo al secondo, o nei dati contenuti nell’archivio tenuto dal secondo.


2.2. Norme di immediata attuazione necessitanti dell’emanazione di decreti ministeriali.

2.2.A. Creazione casellario assicurati.

L’istituzione presso l’Inps di un casellario centrale delle posizioni previdenziali (art. 1, 23° comma) rappresenta la conclusione di un percorso iniziato con il d.P.R. 31.12.1971, n. 1388 (decreto modificato una prima volta dall’art. 6 del decreto legge 23.2.1995, n. 41, conv.to con modificazioni dalla l. 22.3.1995, n. 85 e, una seconda volta, dall’art. 8 del decreto legislativo 2.9.1997, n. 314), istitutivo del casellario centrale dei pensionati.
L’art. un. di tale decreto presidenziale istituì, sempre presso l’Inps, il casellario centrale per la conservazione e la gestione dei dati e degli elementi relativi ai titolari di trattamenti pensionistici erogati dall’Ago, dai regimi obbligatori di previdenza sostitutivi o che abbiano in ogni caso comportato l’esclusione o l’esonero dall’iscrizione all’Ago, dai regimi obbligatori in favore dei liberi professionisti, e, con regola generale di chiusura, da qualunque altro regime pensionistico di previdenza obbligatoria, integrativa e complementare (primo comma).
Tutte le citate forme previdenziali, entro il 30 novembre di ogni anno (regola generale derogabile al venir in essere di fattispecie previste nello stesso decreto presidenziale), trasmettono i dati necessari per la gestione del casellario allo stesso, su supporto magnetico o in via telematica.
Al casellario è affidato il compito, entro il mese di giugno di ogni anno, sulla base dei dati e degli elementi in suo possesso, di individuare i pensionati titolari di due o più trattamenti pensionistici, di calcolare l’aliquota dei percipienti, di determinare le detrazioni spettanti, di comunicare all’ente che eroga il trattamento pensionistico di minore importo, l’aliquota di imposta e le detrazioni da operare, nonché gli eventuali contributi da trattenere.
Il casellario centrale dei pensionati è altresì tenuto a fornire le notizie risultanti dalle schede in proprio possesso, agli organi gestori dei regimi pensionistici, ed a rilasciare le attestazioni concernenti l’iscrizione a chiunque sia tenuto a documentare lo stato di pensionato.
Successivamente sulla materia è intervenuto il decreto legge 6.7.1978, n. 352, convertito con modificazioni dalla legge 4.8.1978, n. 467, disciplinante il collegamento tra le anagrafi delle aziende e il completamento del casellario centrale dei pensionati.
L’art. 3 assegnava al casellario centrale gli ulteriori compiti di conservazione dei dati afferenti:
- ai trattamenti di pensione o di assegno continuativo di natura assistenziale;
- ai trattamenti pensionistici di guerra liquidati ai sensi della legge n. 313 del 18.3.1968;
- alle rendite per invalidità permanente o a favore dei superstiti per infortuni sul lavoro o malattie professionali.

Su questo quadro normativo si inserisce il comma 23° dell’art. 1 che istituisce un nuovo e ulteriore casellario le cui informazioni (costantemente aggiornate), unitamente a quelle fornite dal casellario dei pensionati, costituiranno “…la base per le previsioni e per la valutazione preliminare sulle iniziative legislative e regolamentari.”
Al casellario è affidato innanzitutto il compito di raccogliere, conservare e gestire i dati e altre informazioni relative ai lavoratori:
- iscritti all’Ago per IVS dei lavoratori dipendenti, anche con riferimento a periodi di fruizione di trattamenti di disoccupazione o di altre indennità o sussidi che prevedono una contribuzione figurativa;
- iscritti ai regimi obbligatori sostitutivi, esclusivi o esonerativi dell’Ago;
- iscritti ai regimi pensionistici obbligatori di cui alla gestione speciale istituita con il comma 26° dell’art. 2, della legge n. 335 del 1995 (dimenticandosi in questa specificazione la menzione della omologa gestione istituita in favore degli associati in partecipazione dall’art. 43 del decreto legge 30.9.2003, n. 269, conv.to con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326);
- iscritti a qualunque altro regime di previdenza obbligatorio;
- iscritti ai regimi facoltativi gestiti dagli enti previdenziali.
Compito del casellario è quello di:
- costituire l’anagrafe generale delle posizioni assicurative condivisa tra tutte le amministrazioni dello Stato e gli organismi gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie;
- emettere l’estratto contro contributivo annuale previsto dal sesto comma, dell’art. 1, della legge n. 335 del 1995;
- calcolare la pensione sulla base della storia contributiva dell’assicurato che, avendone maturato il diritto, chiede, la certificazione dei diritti acquisiti o presenta domanda di pensionamento.
Il legislatore, non soddisfatto dei compiti sin qui assegnati, affida al casellario ulteriori compiti che devono porsi in connessione con la politica occupazionale perseguita con la legislazione lavoristica, con il fine di monitorare lo stato dell’occupazione e di verificare il regolare assolvimento degli obblighi contributivi.
All’architettura legislativa sin qui delineata si affianca la decretazione ministeriale che, entro due mesi dall’entrata in vigore della medesima legge, definirà le informazioni da trasmettere al casellario, ivi comprese quelle contenute nelle dichiarazioni presentate dai sostituti d’imposta, le modalità, la periodicità e i protocolli di trasferimento dei dati.
Successivamente all’emanazione del citato decreto ministeriale, il legislatore fissa, agli enti e alle amministrazioni interessate, un termine di tre mesi, da computare a decorrere dalla pubblicazione del decreto citato sulla Gazzetta Ufficiale, per la trasmissione dei dati relativi a tutte le posizioni risultanti nei propri archivi.
Il mancato rispetto del termine trimestrale non comporterà alcuna sanzione a carico degli enti che non hanno ottemperato, con la conseguenza pertanto che tutto potrebbe spostarsi in un futuro indefinito o, nella migliore delle ipotesi, il casellario centrale degli assicurati conterrà i dati forniti dai medesimi soggetti che hanno fornito e forniscono i dati al casellario centrale dei pensionati.

2.2.B. Inquadramento aziende e lavoratori autonomi.

Il legislatore, contrariamente a quel che si afferma, non è intervenuto solo nella materia pensionistica, pubblica o privata, la dimostrazione di tale assunto è data dalla disposizione dettata dal 30° comma, con la quale si assegna al Ministero del lavoro il compito di dettare una disciplina in tema di inquadramento delle aziende.
La disciplina della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, come noto, la si rinviene nell’art. 49 della legge 9.3.1989. Articolo che contiene sia una disciplina a regime, sia una disciplina transitoria riguardante gli inquadramenti antecedenti.
A questo articolo è opportuno appaiare l’art. 3 della legge n. 335 del 1995, articolo che dispone l’efficacia ex nunc dei provvedimenti d’ufficio, adottati dall’Inps, di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, a meno che l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.
All’interno di questo quadro legislativo, così come solidificatosi in forza dell’interpretazione giurisprudenziale, si innesta l’opera del Ministro del lavoro e delle politiche sociali che, al duplice fine della modulazione dei termini di scadenza della comunicazione di inizio e cessazione di attività degli adempimenti contributivi a carico delle aziende e dei lavoratori autonomi e parasubordinati, e di favorire la tempestività della trasmissione dei dati e l’aggiornamento delle posizioni individuali dei lavoratori, fornirà, nel termine di sei mesi dall’entrata in vigore della legge n. 243, le direttive in merito all’individuazione del settore economico di appartenenza delle aziende e dei lavoratori autonomi e parasubordinati, sulla base dei criteri previsti dal citato articolo 49.
Le direttive, con le quali si affida agli enti previdenziali (si rilevi che l’unico ente chiamato a emanare provvedimenti di classificazione per le categorie indicate nella disposizione è l’Inps) il compito di valutare se nel caso concreto possano essere applicati quei criteri fissati dal Ministro, sono finalizzate a:
- articolare in modo flessibile i termini di scadenza degli adempimenti retro individuati;
- favorire la tempestività della trasmissione dei dati e l’aggiornamento delle posizioni dei lavoratori dipendenti da imprese private in collegamento con l’istituzione del casellario centrale degli assicurati di cui al precedente ventiduesimo comma.
Orbene se i prosaici fini di questa disposizione sono quelli di far scomparire un termine fisso di adempimento, e quindi anche la sanzione connessa al suo inadempimento, e di favorire l’aggiornamento costante dei dati che affluiscono al casellario centrale degli assicurati, non si comprende la necessità di calare questi obiettivi all’interno della disposizione in tema di inquadramento delle aziende, affidando al Ministero il compito di dare direttive nel rispetto dei criteri fissati dal legislatore del 1989.
Direttive, si osservi, aventi a oggetto l’individuazione del settore economico di appartenenza; sembra quasi che il legislatore del 2004 non fidandosi dell’Inps, pone quale intermediario fra questo e coloro i quali sono destinatari dei provvedimenti di classificazione il Ministero del lavoro.
Ministero che in realtà surrettiziamente sarà chiamato a conformare l’attività svolta dall’ente previdenziale, e ciò a prescindere dai fini esplicitati dal comma 30°, fini per il cui raggiungimento non era necessario coinvolgere il tema dell’inquadramento.



2.3. Legislazione delegante.

Di maggiore peso contenutistico appaiono le disposizioni deleganti dettate sia per la previdenza obbligatoria, sia per la previdenza complementare.
Disposizioni a cui è dedicata larga parte del testo di legge e sulle quali si potrà, nel futuro e sulla scorta della legislazione delegata, testare il grado di bontà della riforma, ma sin da ora è possibile connettere tali disposizioni con il tessuto normativo preesistente e indicare quale potrebbe o dovrebbe essere la strada da percorrere con i decreti delegati.

2.3.A. Totalizzazione

La totalizzazione dei contributi è il modello legislativo, generalmente applicabile al sistema contributivo, introdotto dall’art. 71 della legge n. 388 del 23.12.2000, modello in forza del quale si procede alla riunione virtuale – all’opposto dell’istituto della ricongiunzione ove vi è un vero e proprio passaggio di contributi da una gestione all’altra, o da un ente all’altro – dei contributi esistenti nelle varie gestioni per la verifica dell’esistenza del diritto a pensione e che sfocia, successivamente alla verifica positiva della sua sussistenza, nella liquidazione di rate di pensione a carico di ciascuna delle gestioni ove risultano accreditati e versati i contributi.
Con l’art. 71, che trova la sua causa immediata e diretta nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1999, si riconosce al lavoratore, e ai superstiti dello stesso qualora questi sia morto prima del raggiungimento dell’età pensionabile, che non abbia maturato il diritto ad alcuna pensione presso nessuna delle forme pensionistiche gestite dall’Ago, delle forme pensionistiche sostitutive, esonerative ed esclusive della prima, o delle forme pensionistiche gestite dagli enti privati privatizzati, la facoltà di utilizzare, cumulandoli per il perfezionamento dei requisiti necessari al conseguimento della pensione di vecchiaia e di inabilità – con esclusione della pensione di anzianità -, i periodi assicurativi non coincidenti, posseduti presso le singole gestioni, e ciò nell’ipotesi che tali periodi, considerati separatamente, non raggiungano i requisiti minimi previsti da ogni singola gestione per il riconoscimento dei menzionati trattamenti pensionistici.
L’intervento legislativo è stato seguito dal decreto n. 57 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 7.2.2003 che riprende, contenutisticamente e lessicalmente, l’art. 71, fissa le modalità di attuazione per la totalizzazione dei periodi assicurativi e, in linea con il sistema previdenziale pubblico, reitera il principio della domanda da parte dell’assicurato (art. 3, primo comma).
Le questioni che, allo stato, rimangono irrisolte attengono alla mancata utilizzazione della contribuzione giacente presso una gestione o un fondo, diverso da quello che ha liquidato la pensione e che è irrimediabilmente persa.
Il legislatore delegante assegna al Governo il compito di ridefinire la disciplina sulla materia con il palese fine di ampliare progressivamente le possibilità di sommare i periodi assicurativi e con l’altrettanto palese obiettivo di consentire la fruizione dell’istituto sia al lavoratore che abbia compiuto 65 anni di età, sia al lavoratore che abbia complessivamente maturato 40 anni di anzianità contributiva, e che in entrambe le ipotesi abbia versato presso ogni cassa, gestione o fondo previdenziale, coinvolti nella domanda di totalizzazione, almeno 5 anni di contributi (lett. o), primo periodo), con estensione di tali possibilità anche ai superstiti dell’assicurato morto prima del compimento dell’età pensionabile.
Una volta compiuta la totalizzazione, ogni ente sarà tenuto al pagamento del trattamento pensionistico pro quota (lett. o), 2° periodo).

Certamente condivisibile appare l’intenzione di ampliare l’utilizzo della totalizzazione, in specie in un modello contributivo qual è quello tendenziale, affinché tutti i contributi versati (assegnando a questo termine un significato lato, comprensivo di qualunque tipo di contribuzione accreditata presso la posizione previdenziale) dal lavoratore, durante la sua attività, siano utili per il conseguimento del diritto a pensione.
Detto questo si deve constatare, contrariamente alla disposizione dettata dall’art. 71 l. cit. e agli approdi giurisprudenziali, che l’ampliamento riguarda anche le pensioni di anzianità, il chè non pare congruo, né con riguardo al versante nazionale, né con riguardo al versante comunitario.
La totalizzazione non può che essere l’ancora di salvezza per il lavoratore che, nonostante la prestazione lavorativa resa, giunto al momento in cui fisiologicamente non è più in grado di lavorare, se non potesse fruire della ricongiunzione virtuale della contribuzione si vedrebbe disconosciuto il suo diritto a pensione, in palese dispregio dei principi costituzionali dettati dall’art. 38.
Tutto ciò non pare possa accadere allorquando si tratti di un lavoratore che, pur non avendo raggiunto l’età per il pensionamento di vecchiaia, decide di andare in pensione fruendo solo del requisito della contribuzione. Nei confronti di costui non pare che possano valere le stesse regole poste a difesa di chi, ormai anziano, non può più rimanere nel mondo del lavoro.
Ancora, in via astratta, condivisibile può essere l’ulteriore regola che, per far scattare la totalizzazione, prevede il versamento di almeno cinque anni di contribuzione presso ciascuno dei fondi coinvolti.
Ma la ragionevolezza della disposizione con riguardo al sistema contributivo a capitalizzazione (dove il soggetto arricchisce con i versamenti esclusivamente la sua posizione contributiva) passa, nell’ipotesi che la contribuzione versata sia inferiore al quinquennio e pertanto non utile per la totalizzazione, attraverso il riconoscimento in capo al lavoratore del diritto al rimborso, parziale o integrale, delle somme versate a titolo di contribuzione vecchiaia, invalidità e superstiti e certamente non utilizzabili, senza in questa sede soffermarsi sull’ulteriore problema del rimborso dei frutti scaturiti dall’investimento e dei costi sostenuti dal fondo.
Questo diritto al rimborso, come noto, non esiste in nessun sistema di previdenza obbligatorio a modello retributivo o a modello contributivo, con la conseguenza che potrebbero esserci lavoratori che pur avendo raggiunto l’età per il pensionamento di vecchiaia, sono questi i soggetti economicamente a rischio, non si vedranno riconosciuto né il diritto a pensione in forza della totalizzazione, né il rimborso di quei contributi versati obbligatoriamente ma per un lasso temporale inferiore al quinquennio.
Pare che la soluzione, con riguardo alla verifica del sorgere del diritto a pensione di vecchiaia, debba essere altra e passare attraverso l’utilizzo generale e generalizzato di tutti i contributi versati presso tutte le forme di previdenza obbligatoria nel corso della carriera lavorativa.
Altro e diverso problema è poi il quantum della quota di pensione erogata dalla gestione, che ha un accreditamento contributivo inferiore al quinquennio, importo che ben potrebbe essere economicamente irrisorio.

2.3.B. Riduzione onere contributivo.

L’intervento del legislatore delegante nella materia contributiva continua, con la lett. g) del secondo comma, laddove si affida ai decreti legislativi delegati il compito di prevedere l’elevazione fino a un punto percentuale del limite massimo di esclusione dall’imponibile contributivo delle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali.
Il pieno significato di questa norma lo si ha se la si pone in collegamento con due precedenti testi legislativi, precisamente:
- l’art. 2 del decreto legge 25.3.1997, n. 67, convertito con modificazioni dalla legge 23.5.1997, n. 135,
- l’art. 60 della legge 17.5.1999.
La prima disposizione esclude dalla retribuzione imponibile, nonché dalla retribuzione pensionabile, nell’Ago e nelle forme sostitutive di questa, le erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali, ovvero di secondo livello delle quali sono incerti la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura sia correlata dal contratto collettivo medesimo alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento economico dell’impresa e dei suoi risultati.
Il secondo comma pone un limite massimo, a tale esclusione, del tre per cento della retribuzione contrattuale percepita (tale percentuale è stata introdotta dall’art. 60 della legge n. 144 del 1990), nell’anno solare di riferimento.
In ogni caso su tali emolumenti è previsto il pagamento di un contributo di solidarietà del 10%, a carico esclusivo del datore di lavoro; contributo che non sarà dovuto, integralmente o parzialmente solo allorché gli emolumenti in questione sono destinati, in toto vel pro parte, a trattamenti pensionistici complementari.
L’apparato legislativo sin qui descritto non trova applicazione allorquando risulti che ai dipendenti sono stati attribuiti, nell’anno solare di riferimento, trattamenti economici e normativi inferiori a quelli previsti dal C.C.N.L.
La disposizione introdotta dalla lett. g) pertanto si limita a incidere sul quantum del beneficio, consentendo al legislatore delegato di elevare lo stesso entro il limite massimo di un punto percentuale, lasciando immutati i requisiti necessari per il venir in essere del beneficio medesimo.
Si deve ritenere che tale elevazione, dal 3 al 4 per cento, sarà certamente introdotta, purché siano individuate le risorse pubbliche che sopperiscano a quest’ulteriore diminuzione di entrate in favore del sistema di previdenza pubblico.

2.3.C. Emersione lavoro sommerso dei pensionati.

Con la lett. m) il legislatore fa riapparire l’istituto dell’emersione del lavoro sommerso svolto dai lavoratori pensionati.
Si rilevi che il micro-sistema previdenziale, nell’ipotesi di lavoro svolto da pensionati prevede un modello di tal fatta:
- dichiarazione per iscritto da parte del lavoratore-pensionato al proprio datore di lavoro della sua qualità di pensionato (art. 20, primo comma, d.P.R. 27.4.1968, n. 488);
- successiva annotazione da parte del datore di lavoro, sui libri matricola,della qualità di pensionato e contestuale nascita dell’obbligo di detrarre dalla retribuzione, al netto delle integrazioni per carichi di famiglia, una somma pari all’importo della pensione o della quota di essa, non dovuti e di versarla all’Inps (comma ult. cit.);
- irrogazione a carico del datore di lavoro che non abbia effettuato le trattenute o non le abbia versate all’Inps, di una sanzione, determinata dal comitato esecutivo dell’Inps (art. 40, 2° comma, d.P.R. ult. cit.);
- irrogazione a carico del lavoratore, che abbia omesso di comunicare la sua qualità di pensionato al datore di lavoro, di una somma pari al doppio dell’importo delle trattenute non effettuate a causa di tale omissione e tale somma sarà prelevata dall’Inps sulle rate di pensione dovute al trasgressore (comma quarto, art. ult. cit.).
Il legislatore, volendo liberalizzare l’età pensionabile e prevedere una totale cumulabilità tra redditi pensionistici e redditi di lavoro per il futuro, ha necessità di chiudere con il passato e pertanto si appresta, ancora una volta, a emanare una legislazione premiale nei confronti di chi ha violato la legge, percependo l’intera pensione anche quando non ne avrebbe avuto diritto, integralmente o parzialmente, in conseguenza dello svolgimento di un’attività lavorativa.
Ovviamente l’utilizzo dell’istituto dell’emersione, introdotto con la legge 18.10.2003, n. 383, porta con se la rimozione, anche per il passato delle sanzioni previste dall’art. 40 d.P.R. retro cit.

2.3.D. Estensione dell’ambito di applicazione delle disposizioni in tema di contribuzione figurativa e di contribuzione volontaria.

L’infinito secondo comma dedica alla contribuzione figurativa la disposizione contenuta nella lett. r) del cit. comma, e alla contribuzione volontaria due disposizioni, che si ritrovano rispettivamente nella lett. t), in tema di contribuzione volontaria all’interno della previdenza obbligatoria, e al n. 5 della lett. e), con riguardo alla previdenza complementare.

La contribuzione figurativa, secondo il modello legislativamente delineato, garantisce al lavoratore, che non ha potuto prestare la propria attività lavorativa per l’adempimento di compiti legislativamente riconosciuti di rilievo sociale, l’accredito della contribuzione previdenziale tramite finanziamento pubblico.
Siffatto tipo di contribuzione produce i medesimi effetti della contribuzione obbligatoria e volontaria e, al pari di questi tipi, è utile, in via generale, per il perfezionamento del diritto a pensione e per la determinazione della misura della stessa.
La contribuzione figurativa non può essere riconosciuta per i medesimi periodi per i quali vi è la persistenza della contribuzione obbligatoria e per il calcolo della misura della contribuzione da accreditare, l’ente previdenziale userà quale parametro, la media dei contributi effettivamente versati.
La citata lett. r), contrariamente a tale regola di alternanza fra contribuzione figurativa e contribuzione versata dal datore di lavoro o dal medesimo lavoratore allorquando il rapporto di lavoro si svolge normalmente, introduce la possibilità di cumulo fra contribuzione ordinaria e contribuzione figurativa, allorquando vi sia la trasformazione di un contratto a tempo pieno in un contratto a tempo parziale causata dal fatto che il lavoratore abbia una minorazione che abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, e la situazione assume connotazione di gravità (così il terzo comma, primo periodo, dell’art. 3, della legge 5.2.1992, n. 104), o dal fatto che il lavoratore debba assistere familiari che versino nella citata situazione di disabilità.
La disposizione certamente condivisibile allorquando riconosce il diritto alla contribuzione figurativa in favore del lavoratore che sia costretto dalla sua malattia a ridurre il proprio impegno di lavoro, all’opposto non appare altrettanto condivisibile allorquando riconosce lo stesso diritto al lavoratore sano che si veda costretto a ridurre il proprio impegno di lavoro per lo stato di malattia di familiari conviventi. Forse in questa ipotesi sarebbe stato meglio apprestare un reticolato di tutela sociale che evitasse al lavoratore il parziale ritiro dal mondo del lavoratore, piuttosto che costringerlo a una scelta di tal fatta.
 


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La contribuzione o prosecuzione volontaria, in generale e con definizione valida sia nell’ambito della previdenza obbligatoria, sia nell’ambito della previdenza complementare, consente al lavoratore di continuare, per il futuro e sino a quando non si rientrerà nel mondo del lavoro, a versare volontariamente la contribuzione nell’ipotesi che sia venuto meno l’obbligo assicurativo per le forme di previdenza obbligatoria.

Con riguardo alla previdenza obbligatoria l’istituto trova la sua disciplina finale nel decreto legislativo n. 184 del 30.4.1997, al capo III.
L’art. 5 estende l’ambito di applicabilità soggettiva delle disposizioni in tema di prosecuzione volontaria, dettate dal d.P.R. 31.12.1971, n. 1432, e dalla legge 18.2.1983, n. 47, agli iscritti ai fondi sostitutivi ed esclusivi dell’Ago, nonché alla gestione istituita con il 26° comma dell’art. 2, della legge n. 335 del 1995.
I successivi commi disciplinano le modalità e le condizioni attraverso le quali i soggetti, di cui al primo comma, potranno esperire la prosecuzione volontaria.
La regola dettata dalla lett. t) riconosce la possibilità per gli iscritti alla gestione da ultimo citata (si osservi che la stessa possibilità non è riconosciuta, nonostante non si rinvengano strutturali differenze, in favore degli associati in partecipazione, iscritti alla gestione istituita dall’art. 43 del decreto legge 30.9.2003, n. 269, conv.to con modificazioni dalla legge 24.11.2003, n. 326), persistendo l’obbligo contributivo presso la stessa, di chiedere l’autorizzazione alla prosecuzione volontaria della contribuzione presso altre forme di previdenza obbligatoria, al fine di conseguire il requisito contributivo per il diritto a pensione a carico delle medesime.
L’introduzione di questa regola comporta innanzitutto la mutazione della ratio che, sino a oggi, ha supportato l’istituto, cioè il venir in meno in capo al lavoratore dei requisiti di legge dai quali scaturiva il diritto a essere iscritto presso una forma di previdenza obbligatoria e parallelamente il dovere di versare la contribuzione previdenziale per l’attività lavorativa prestata.
All’opposto il legislatore delegante riconosce in favore di un lavoratore che svolge un’attività lavorativa per la quale lo stesso paga una contribuzione previdenziale obbligatoria la facoltà, per lo stesso periodo, di versare altra contribuzione, stavolta volontaria, presso altre forme di previdenza obbligatoria.
Tale regola può trovare una sua giustificazione solo se la si pone in connessione logica con il fine, esplicitato dal legislatore delegante, dalla stessa perseguito e cioè quello di garantire il conseguimento del requisito contributivo per il diritto a pensione a carico di quella forma previdenziale presso la quale il lavoratore vuole versare la contribuzione volontaria.
Forse sarebbe stato opportuno piuttosto che esperire questa strada, esperire la strada dell’utilizzo della totalizzazione anche per l’acquisizione del diritto a pensione da parte di lavoratori che, da un verso, hanno una posizione contributiva, ormai cristallizzata, presso forme di previdenza obbligatorie diverse da quella della gestione di cui al citato 26° comma, con l’utilizzo per il calcolo del trattamento pensionistico del metodo retributivo. Da altro verso hanno una posizione contributiva dinamica presso la citata gestione speciale che utilizza il metodo contributivo per il calcolo della pensione.
Strutturalmente non pare che per la verifica del raggiungimento dei requisiti del diritto a pensione, nell’ambito della previdenza obbligatoria, sia necessario l’utilizzo dello stesso metodo, retributivo o contributivo, per il calcolo del successivo trattamento pensionistico. Ben potendosi immaginare in astratto che la verifica del venir in esser dei requisiti necessari per il riconoscimento del trattamento pensionistico sia il frutto della combinazione di due tranches di contribuzione previdenziale obbligatoria che, per l’individuazione della quota di pensione spettante, utilizzeranno metodi di calcolo differenti.

Se si passa poi alla contribuzione volontaria in seno alla previdenza complementare il legislatore riconosce la possibilità di proseguire nei versamenti contributivi anche oltre i 5 anni dal raggiungimento del limite dell’età pensionabile.

2.4. Previdenza complementare – Profili di carattere generale.

La legge delega affida, all’art. 1, al Governo il compito di emanare una legislazione delegata finalizzata, fra l’altro, ad:
- “e) adottare forme pensionistiche complementari, collettive e individuali, con contestuale incentivazione di nuova occupazione con carattere di stabilità prevedendo a tal fine: 1) il conferimento, salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del trattamento di fine rapporto maturando alle forme pensionistiche complementari di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, garantendo che il lavoratore stesso abbia una adeguata informazione sulla facoltà di scegliere le forme pensionistiche a cui conferire il trattamento di fine rapporto, previa omogeneizzazione delle stesse in materia di trasparenza e tutela, e anche in deroga alle disposizioni legislative che già prevedono l’accantonamento del trattamento di fine rapporto e altri accantonamenti previdenziali presso gli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, per titoli diversi dalla previdenza complementare di cui al citato decreto legislativo n. 124 del 1993; 2) l’individuazione, nel caso in cui il lavoratore non esprima, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo, emanato ai sensi del presente articolo, ovvero entro sei mesi dall’assunzione, la volontà di non aderire ad alcuna forma pensionistica complementare e non abbia esercitato la facoltà di scelta in favore di una delle forme medesime, di modalità tacite di conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi istituiti o promossi dalle regioni, tramite loro strutture pubbliche o a partecipazioni pubblica all’uopo istituite, oppure in base ai contratti e accordi collettivi di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 3 e al comma 2 dell’articolo 9 del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, nonché ai fondi istituiti in base alle lettere c) e c-bis) dell’articolo 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo; 3) la possibilità che, qualora il lavoratore abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro da destinare alla previdenza complementare, detto contributo affluisca alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso o alla quale egli intenda trasferirsi ovvero alla quale il contributo debba essere conferito ai sensi del numero 2);….7) la costituzione, presso enti di previdenza obbligatoria, di previdenza obbligatoria, di forme pensionistiche alle quali destinare in via residuale le quote del trattamento di fine rapporto non altrimenti devolute; 8) l’attribuzione ai fondi pensione della con titolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro, e la legittimazione dei fondi stessi, rafforzando le modalità di riscossione anche coattiva, a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi nonché l’eventuale danno derivante dal mancato conseguimento dei relativi rendimenti; 9) la subordinazione del conferimento del trattamento di fine rapporto, di cui ai numeri 1) e 2), all’assenza di oneri per le imprese, attraverso l’individuazione delle necessarie compensazioni in termini di facilità di accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente riduzione del costo del lavoro e di eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto;…”;
- “…la rimozione dei vincoli posti dall’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, al fine della equiparazione tra forme pensionistiche; l’attuazione di quanto necessario al fine di favorire le adesioni in forma collettiva ai fondi pensione aperti,…” (secondo periodo, n. 4), lett. e), art. 1);

In questa sede, e in attesa che si chiariscano gli ambiti di competenza legislativa regionale e nazionale alla luce dell’art. 117 Cost. al fine di comprendere altresì quali possano essere, e se vi siano, gli spazi di operatività del legislatore delegato, si può procedere a una serie di considerazioni di primo impatto di tal fatta:
a) nonostante l’asserita globalità della disciplina in tema di destinazione del trattamento di fine rapporto a previdenza complementare, è certo che la disciplina non incide sulle posizioni di previdenza complementare dei lavoratori autonomi o, in generale di tutti quei lavoratori per i quali non esiste il predetto trattamento o per il quali esiste, come i lavoratori del pubblico impiego, un trattamento che è qualcosa di diverso dal tfr, si tratta della indennità di buona uscita, per entrambe tali categorie non vi è alcun modello alternativo che possa consentire, allo stato, anche per loro l’incentivo della previdenza complementare;
b) il legislatore delegante nel prevedere la destinazione delle quote di t.f.r., maturato e maturando in capo ai lavoratori, a finanziamento della previdenza complementare non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei lavoratori, dimenticando che la categoria non è unitaria ma al suo interno occorre distinguere fra lavoratori per i quali persiste il modello previdenziale obbligatorio di tipo retributivo, lavoratori nei confronti dei quali convive con riguardo alla previdenza obbligatoria il sistema retributivo e quello contributivo, e infine lavoratori che ricadono sotto la vigenza del modello contributivo è legittimo ritenere che il delineato modello di allocazione delle risorse scaturite dal t.f.r. possa avere una sua ratio limitatamente a quest’ultima categoria di lavoratori e al più con riguardo alla seconda categoria di lavoratori, retro evidenziata, limitatamente alle quote di t.f.r. maturate e maturande dopo il passaggio al metodo contributivo;
c) non si comprende il prospettato nesso di causalità fra incremento dei flussi di finanziamento alla previdenza complementare e incentivazione di nuova occupazione con carattere di stabilità;
d) la destinazione del trattamento di fine rapporto ha quale suo “necessario”, così testualmente, contrappasso, e si deve ritenere che il tutto debba porsi in essere contestualmente, non solo l’individuazione da parte del legislatore delegato “…delle necessarie compensazioni in termini di facilità di accesso al credito…”, ma anche l’eliminazione del contributo posto a carico dei datori di lavoro al fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto previsto e disciplinato dall’ottavo comma, dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297 (dimenticandosi però che lo stesso Fondo, ai sensi del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 80, garantisce il pagamento delle ultime tre mensilità e pertanto la contribuzione versata non attiene esclusivamente al T.F.R.);
e) il conferimento automatico a tutte le forme di previdenza complementare, senza distinzione di sorta al loro interno, del trattamento di fine rapporto, “salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore”, tale regola, quella più nota e discussa, fa sorgere dubbi con riguardo alla legittimità di un modello incardinato sul silenzio, allorché dal silenzio da solo, come noto, in ambito giuridico, non può sorgere alcun onere a carico di un soggetto (nel nostro caso si ha la perdita della possibilità di riscuotere il t.f.r.), e con riguardo al fatto che la stessa veda come suoi beneficiari indistintamente tutti gli operatori del sistema previdenza complementare, mentre se tale regola può al più avere un suo limitato spazio di operatività limitatamente ai fondi chiusi;
f) l’individuazione di modalità tacite di conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi - istituiti o promossi dalle regioni o ai fondi istituiti in forza di contratti e accordi collettivi, anche aziendali, ovvero in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di C.C.N.L. (art. 3, primo comma, lett. a), d. lgs.vo n. 124 del 1993) o ai fondi aperti secondo quanto disposto nel secondo comma dell’art. 9 decreto legislativo cit. - nell’ipotesi che il lavoratore non esprima, entro un termine fissato, la volontà di non aderire (inutile evidenziare la forma barocca di costruzione con la doppia negativa di una proposizione di per sé di non facile lettura) ad alcuna forma pensionistica complementare e non abbia esercitato la facoltà di scelta in favore di una delle forme medesime, questa ulteriore ipotesi di allocazione del t.f.r. passa anch’essa attraverso il silenzio del lavoratore, la mancata comunicazione di non adesione, e una scelta autoritativa del legislatore delegante e, anche in questo caso non pare da condividere un’opzione legislativa di tal fatta che, si rammenti, non è condivisa dalle parti sociali quelle chiamate a far decollare la previdenza complementare con il loro fattivo impegno teso a un coinvolgimento di tutti i lavoratori;
g) la creazione di un modello che consenta l’afflusso o il conferimento del contributo posto a carico del datore di lavoro, all’interno del quale rientra la quota di t.f.r. maturata e maturanda, direttamente alla forma pensionistica privata, ma il legislatore delegante non prevede l’ipotesi di inadempimento da parte del datore di lavoro e non dice pertanto alcunché su quali siano le forme di tutela del lavoratore con riguardo specifico alle quote di t.f.r. non versate, in breve è da chiedersi se trattandosi sempre di contribuzione t.f.r., si possa ipotizzare l’intervento del Fondo di garanzia che si sostituisca al datore di lavoro nel pagamento della contribuzione dovuta a tale titolo e da versare al fondo di previdenza integrativa;
h) il riconoscimento del potere in capo agli enti di previdenza obbligatoria della costituzione di forme pensionistiche dove collocare, in via residuale, le quote di trattamento di fine rapporto non altrimenti devolute, se ben si intende, il legislatore consente la creazione di quel che si potrebbe definire una terza forma di previdenza anomenclata, gestita dagli enti di previdenza obbligatoria, ove far confluire le quote di t.f.r. non utilizzate per alimentare la seconda gamba del sistema di previdenza nazionale, sembra di essere davanti a un legislatore prigioniero di un sogno, sogno dove esiste un lavoratore medio talmente ricco da potere destinare di scegliere quote del trattamento t.f.r. non solo ai fondi di previdenza privata ma anche a un altro fondo previdenziale;
i) la rimozione dei vincoli posti dall’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 comporta la possibilità da parte dei lavoratori di iscriversi ai fondi pensione aperti anche se sussistano fondi chiusi per la medesima categoria di appartenenza;
j) il conferimento a tutte le forme di previdenza complementare del T.F.R. dovrebbe consentire, nelle intenzioni del legislatore, l’accesso pieno al mercato della previdenza da parte delle società che gestiscono le forme previdenziali di cui agli artt. 9, 9 bis e 9 ter;
k) l’equiparazione fra tutti gli attori deve però passare attraverso “…la previa omogeneizzazione delle stesse (forme pensionistiche) in materia di trasparenza e tutela…” (n. 1), lett. e), 2° comma, art. 1). La predicata omogeneizzazione non può che passare da un versante attraverso la creazione di uno strumentario unico posto a tutela dei lavoratori, questo sarà possibile normativamente tramite la condivisione di regole da parte delle autorità poste a vigilanza di tale mercato, e da altro versante attraverso l’equiparazione dei costi da sopportare per l’iscrizione presso l’una o l’altra forma di previdenza;
l) sotto il primo versante, menzionato sub K), appare corretto ipotizzare, per tutte le forme previdenziali nessuna esclusa, fra l’altro, che le risorse reperite sul mercato a tal fine costituiscano un patrimonio separato e autonomo che non possa essere distratto dal fine previdenziale al quale è destinato e non possa formare oggetto di esecuzione da parte né dei creditori della soggetto che gestisce la forma pensionistica (è evidente lo scollamento da tale ipotesi della forme assicurative di cui all’art. 9 ter), né di quelli particolari dell’aderente.
m) con riguardo al secondo versante, sempre menzionato sub k), se non si offriranno prodotti a costi tendenzialmente uguali a quelli offerti dai fondi chiusi, o la cui redditività sia superiore a quella dei fondi chiusi così compensando l’eventuale maggiore onere posto a carico dell’iscritto, appare certo che nonostante il principio di eguaglianza formale dettato dall’ordinamento lo stesso non si tramuterà in maggiori opportunità di mercato per le società coinvolte.

Si può ritenere che la prospettata possibilità di destinazione del T.F.R. a tutte le forme previdenziali disciplinate nel decreto legislativo comporta dal lato dei lavoratori un ampliamento delle possibilità di scelta, ampliamento che dovrebbe assicurare, in prospettiva, una migliore redditività delle risorse investite e quindi una maggiore sicurezza del mantenimento delle condizioni di vita al momento del pensionamento.

Con riguardo ad altro aspetto, sempre della previdenza complementare, si deve prendere atto che la riforma non tocca, allo stato, le modalità di investimento delle risorse anche se, la perseguita tendenziale equiparazione fra operatori dello stesso mercato, dovrebbe altresì condurre, laddove ciò non sia precluso da un’alterazione strutturale del soggetto che opera sul mercato, a una tendenziale equiparazione degli strumenti utilizzati per l’investimento delle risorse rastrellate.

Esemplificativamente:
a) in favore del fondo chiuso è prevista, fra l’altro, la possibilità di stipulare convenzioni con imprese assicurative che prevedano la gestione di operazioni di capitalizzazione, cioè la stipula di contratti coni quali l’impresa assicuratrice si impegna, senza convenzione relativa alla durata della vita umana, a pagare somme o a consegnare titoli od altri beni al decorso di un termine poliennale, in corrispettivo di versamenti o premi a conferimenti unici o periodici effettuati in denaro o mediante trasferimento di altre attività (si v: art. 6, primo comma, lett. b), decr. legs.vo n. 124 del 1993; n. V) della Tabella allegata al decreto legislativo n. 174 del 1995 e art. 40 del medesimo testo legislativo);
b) i fondi pensione aperti disciplinati dall’art. 9, che possono essere posti in essere anche dalle imprese assicuratrici, rientrano nel ramo VI) della citata Tabella di classificazione, laddove parla di “Operazioni di gestione fondi collettivi costituiti per erogazioni prestazioni in caso di morte, vita, o in caso di cessazione o riduzione attività lavorativa”, pur avendo una disciplina diversa da quella dettata all’art. 6 de decreto legislativo n. 124, assicurano una separatezza patrimoniale e una gestione affidata a una figura ad hoc, il responsabile del fondo, che dovrebbe assicurare una terzietà da altri e diversi interessi coltivati dalla medesima impresa di assicurazione in altre attività;
c) le società di assicurazione che possono, ai sensi dell’art. 9 ter, accedere al mercato della previdenza complementare sono quelle: i) del ramo I), della citata Tabella di Classificazione per ramo, cioè quelle esercenti assicurazioni sulla durata della vita umana; ii) del ramo III), cioè quelle esercenti le assicurazioni di cui al precedente punto connesse con fondi di investimento;
d) l’ISVAP, nel regolamentare l’attività previdenziale svolta dalle imprese assicuratrici, ha ritenuto con riguardo al ramo III) che l’attività di previdenza si possa unicamente svolgere attraverso contratti unit linked (Contratto di assicurazione a premio unico che si caratterizza per il suo rendimento correlato alle variazioni di valore di attività finanziarie), escludendo la possibile stipula di contratti index linked (Contratto di assicurazione a premio unico il cui rendimento è connesso agli andamenti di un determinato indice) e l’utilizzo di operazioni di capitalizzazione invece consentito ai fondi chiusi, con prestazioni legate a fondi comuni di investimento o a fondi interni organizzati in maniera analoga.

Per potere predicare l’annullamento delle difformità di possibile utilizzo dei prodotti assicurativi da parte dei fondi di previdenza e delle imprese di assicurazione, è necessario parallelamente che si estendano i modelli di gestione della previdenza complementare – quanto meno in materia di patrimonio separato, di soggetto gestore delle risorse, di banca depositaria delle stesse -, se invece persisteranno differenze che comportano un maggiore rischio, rischio non solo economico ma, a monte, di mancata trasparenza nei rapporti, in capo al lavoratore, o più genericamente in capo al soggetto che accede alle forme di previdenza complementare, non pare si possa insistere in una tendenziale equiparazione, equiparazione che così stando le cose interesserebbe le sole imprese, le quali avrebbero maggiori possibilità di allocazione delle risorse rastrellate sul mercato senza che tale ampliamento di poteri nella gestione di risorse altrui sia compensato da un ampliamento dei margini di tutela che l’ordinamento appresta nei confronti di chi investe denaro in funzione previdenziale.
 

(1) Il presente scritto trae spunto dalla relazione, “Previdenza pubblica e privata dopo la legge delega n. 243 del 23 agosto 2004”, tenuta a Genova il 10.12.2004, al Convegno “Le nuove pensioni: tra il pubblico e il privato”, organizzato dalla sezione ligure del Centro studi di diritto del lavoro “Domenico Napoletano”, sarà pubblicato corredato delle note e dell’apparato bibliografico nella Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, 2005, n. 1.

 

Pubblicato on line su www.AmbienteDiritto.it il 28 gennaio 2005