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I permessi negoziabili di emissione


MARIA FRANCESCA D'AGOSTINO

 



Le problematiche ambientali che attualmente si riscontrano a livello globale spingono verso la ricerca e l’impiego di nuovi strumenti finalizzati ad una efficace tutela e compatibili con le esigenze di crescita economica di paesi industrializzati e non.


A questo proposito ci si è mossi verso una rivalutazione degli strumenti privatistici, quali responsabilità civile, contratti e proprietà, nel cui ambito si collocano anche i tradable pollution rights.


Fino ad oggi i permessi negoziabili di emissione non hanno giocato un ruolo significativo nelle politiche ambientali, non essendo nemmeno stati presi in grande considerazione dalla dottrina.


Si può affermare con certezza infatti che anche nella politica ambientale comunitaria a dominare siano state fino a ieri, le norme “comando-controllo”, le quali delineano un precetto, un sistema posto a controllo del suo adempimento e una sanzione da irrogare nel caso di eventuale inottemperanza.


Il concetto di permessi negoziabili di emissione venne teorizzato nel 1968 da J.H. Dales nel suo saggio “Pollution, Property and Prices”.


L’idea era quella che, in un sistema di diritti di inquinamento trasferibili, la quantità complessiva consentita di emissioni, fosse delimitata dal numero di permessi, stabilito dall’autorità pubblica in funzione del livello massimo di inquinamento producibile in una data area.


I permessi concessi dall’autorità sarebbero stati distribuiti alle imprese consentendo alle stesse l’emissione di una determinata quantità di sostanze inquinanti per un dato periodo di tempo; l’impresa, infine, per raggiungere i livelli di emissione consentiti avrebbe potuto scegliere se adottare innovazioni tecnologiche volte a rendere i propri impianti “environmentally friendly”oppure acquistare sul mercato i permessi ad inquinare.


Sebbene la nascita dei permessi negoziabili di emissione sia da attribuire alla mente di Dales, nel 1948 J. S. Mill auspicava per la tutela dell’aria, un mercato di property rights, diritti in verità già riconosciuti dal Common Law inglese ai landowners per permetter loro di difendersi dagli inquinatori con lo strumento delle ingiunzioni.


Oggi l’emission trading è considerato un approccio volto a permettere che la riduzione delle emissioni di inquinanti nell’aria, avvenga nella maniera economicamente più efficiente; la logica sottostante infatti, è quella di assicurare che le riduzioni di emissioni abbiano luogo dove il costo risulti più basso e che si giunga conseguentemente ad un abbassamento complessivo dei costi sostenuti per combattere il cambiamento climatico.


Dopo numerosi studi si è giunti ad affermare che la migliore applicazione di tale strumento si verifica in caso di emissioni di gas ad effetto serra, responsabili del surriscaldamento del globo; poiché la dannosità di tali gas non dipende dalla distribuzione spazio-temporale delle emissioni, non rileva in modo particolare quanto una singola impresa emetta, purchè il limite complessivo venga rispettato.
Questa loro peculiarità permette allo Stato di regolare l’ammontare di emissioni prodotte in aggregato, fissando il tetto massimo complessivo di emissioni producibili e consentendo allo stesso tempo alle imprese di stabilire in modo flessibile come raggiungere i target stabiliti. Accordando quindi ai partecipanti la libertà di scambiare sul mercato i permessi di inquinamento, la riduzione delle emissioni complessive sarà raggiunta nel modo più efficiente possibile.


Altra peculiarità dei diritti di inquinamento è la loro durata limitata.


Essi possono infatti essere scambiati solo all’interno del lasso temporale corrispondente al loro periodo di validità. Nonostante ciò, è spesso prevista la possibilità di effettuare il banking dei diritti in eccedenza, accantonabili ed utilizzabili in un momento successivo.


Uno dei motivi per cui si opta generalmente per diritti a durata prestabilita e limitata nel tempo sta nel fatto che, a fronte di un diritto a durata indeterminata, nel caso di riduzione del numero dei permessi da parte dell’autorità pubblica per diminuire ulteriormente l’inquinamento, quest’ultima sarebbe tenuta a corrispondere un indennizzo all’impresa in questione, dovuto all’esproprio.


Un ulteriore particolarità consiste nel fatto che affinché si realizzi uno scambio di diritti di emissione ben funzionante, sono necessari dei meccanismi di controllo, segnalazione e monitoraggio efficienti; è opportuna innanzitutto, la presenza di registri, banche dati, sistemi in grado di garantire la trasparenza delle informazioni e di consentire grazie alla loro accessibilità l’effettuazione di controlli incrociati.


E’ determinante poi il calcolo delle quantità di emissioni prodotte in una data zona nell’arco di un certo periodo di tempo, al fine di consentire un continuo monitoraggio degli inquinanti rilasciati dalle fonti.


In ultimo, si è affermato nel convegno sui “Permessi negoziabili di emissione” svoltosi a Milano nel giugno 2003, che un sistema di emission trading ben funzionante dovrebbe servirsi di un efficace sistema di sanzioni, magari studiato sul modello di Beccaria, fondato sull’elevata probabilità della pena anziché sulla sua entità.


A livello internazionale il sistema di emission trading costituisce parte centrale del Protocollo di Kyoto ed è lo strumento prescelto dalla Comunità Europea per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra in tutti gli stati interni alla stessa.


A livello nazionale invece, gli unici modelli di emission trading attualmente operativi sono quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Danimarca.


Tra questi, sicuramente l’esperienza statunitense è quella presente da più lungo tempo sulla scena giuridico-economica mondiale; i tradable pollution rights infatti, trovano una prima applicazione pratica negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni settanta, circa una decina di anni dopo la loro teorizzazione ad opera di J. H. Dales.


Per quanto riguarda il processo internazionale di istituzionalizzazione dello strumento in esame, i primi interventi sono stati realizzati negli anni ottanta/novanta; a tale proposito, la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti Climatici ed il relativo Protocollo di Kyoto rappresentano la cornice internazionale della lotta al cambiamento climatico.


L’Intergovernmental Negotiating Committe infatti, si è riunita nel febbraio 1991 e, dopo ben quindici mesi di negoziazioni, le rappresentanze dei governi hanno adottato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC); essa è entrata in vigore nel marzo del 1994 ed otto anni più tardi ad aderirvi sono stati ben 188 Stati più la Comunità Europea.


Nel dicembre del 1997 invece, dopo due anni di intense negoziazioni, è stata adottata una sostanziale estensione della Convenzione comprendente nuovi obblighi legalmente vincolanti per le parti.


Tale ulteriore accordo veniva denominato Protocollo di Kyoto: esso ha tracciato le linee base per contrastare il cambiamento climatico contenendo obiettivi vincolanti e qualificati di limitazione e riduzione delle emissioni di sei tipologie di gas serra da parte dei paesi industrializzati.


Inoltre il Protocollo, fondato sugli stessi principi ed obiettivi dell’UNFCC, ne ha integrato e rafforzato le previsioni.


In proposito il Governo italiano, ha ratificato gli impegni presi per il raggiungimento degli obiettivi definiti a Kyoto e ripartiti all’interno dell’UE attraverso il Burden Sharing Agreement con la Legge 1 giugno 2002 n. 120.


Quest’ultima prevede la redazione di un Piano Nazionale per la riduzione dei livelli di emissione dei gas ad effetto serra ad opera dei Ministri interessati e la presentazione dello stesso al Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) per la delibera.


Nonostante il Protocollo di Kyoto non sia ancora entrato in vigore, e considerato in ogni caso che i meccanismi in esso delineati non prenderanno il via prima del 1 gennaio 2008, per molti governi e società è apparso chiaro ed evidente come, a prescindere dal Protocollo stesso, alcune attività umane contribuiscano al cambiamento climatico e come in futuro la riduzione delle emissioni di gas serra si presenti come inevitabile.


In quest’ottica, alcuni tra i principali attori del settore, pur non ancora soggetti ad obblighi vincolanti di riduzione, hanno adottato sistemi di emission trading per i gas serra, desiderando, da un lato, sperimentare soluzioni volte alla riduzione al minimo dei costi di abbattimento delle emissioni, e, dall’altro, acquisire familiarità con lo strumento dei permessi negoziabili di emissione, ancora poco conosciuto e di non facile utilizzo.


Sebbene siano stati attuati tali tentativi, e negli ultimi decenni i permessi negoziabili di emissione siano stati impiegati largamente come strumento di politica ambientale, non solo negli Stati Uniti ed in Europa ma anche in altri Paesi del mondo, essi rappresentano ancora uno strumento marginale accanto alle tradizionali misure nazionali.


La comprensibile diffidenza degli operatori economici di fronte ad uno strumento di mercato applicato alla tutela dell’ambiente, lascia tutt’ora aperto il dibattito tra gli operatori di settori sulla convenienza o meno dell’impiego di tale meccanismo; le istituzioni, gli esperti di settore, le imprese e gli Stati Membri avranno comunque modo nei prossimi anni di sperimentare questa nuova metodologia e studiare organizzazioni diverse a tutela dell’ambiente.


Lo sforzo culturale richiesto, di passaggio dall’approccio regolatorio del sistema comando-controllo a quello di mercato basato sul rapporto costo-efficacia del sistema dei permessi negoziabili di emissione, sarà notevole ma i primi passi verso questo storico cambiamento si stanno già compiendo.



 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 22/12/2005

 

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