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Credito al consumo.

Il fenomeno economico e il regime giuridico del consumer credit (*).

Giuseppe Carriero


1. La disciplina del credito al consumo si realizza, in Italia, con gli artt. 18 - 24 della legge del 19 febbraio 1992, n. 142 contenente "disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee", meglio nota come legge comunitaria per il 1991. La fonte è dunque costituita da disposizioni sovranazionali, contenute nella direttiva n. 87/102 del 22 dicembre 1986 come modificata dalla direttiva n. 90/88, cui la legge italiana fornisce attuazione. La successiva direttiva comunitaria n. 98/7 apporta ulteriori modifiche alla materia, puntualmente recepite con il d. lgs. 25 febbraio 2000, n. 63 ed il decreto del Ministro del tesoro del 6 maggio 2000.
Non è dunque possibile prescindere dalla genesi comunitaria della disciplina sia perché è innegabile l'impatto di questi principi nell'interpretazione delle norme di diritto interno, sia perché, sotto il profilo culturale, la legislazione dell'Unione europea costituisce una delle principali concause della recente evoluzione delle forme di tutela approntate dall'ordinamento interno a favore della parte più debole del rapporto contrattuale.
Una politica tesa alla rimozione delle divergenze tra le legislazioni dei paesi dell'Unione in tema di credito al consumo è peraltro strumentale alla realizzazione ed al funzionamento del mercato unico, e cioè alla stessa essenza della Comunità.
Perché la libertà del "consumatore comunitario" sia effettiva, occorre attuare concrete politiche di protezione informativa valide nell'intero territorio dell'Unione, quindi procedere all'armonizzazione delle legislazioni anche sotto il versante del diritto dei contratti.
Questa considerazione, che consente di superare la tradizionale concezione di ininfluenza del fattore soggettivo nella formazione del contratto (inteso come espressione del diritto degli eguali) si spiega col fatto che nei mercati moderni vi sono barriere tali da accrescere le asimmetrie informative. Risulta quindi necessario non tanto stabilire norme che regolano l'ambiente ove si svolge la negoziazione, quanto provvedere affinché vi sia una trasmissione delle informazioni idonee a favorire il funzionamento del mercato concorrenziale. Se poi si pensa che i mercati, nella concezione moderna, sono illimitati ed internazionali, mentre il diritto è limitato e territoriale, si comprende quale possa essere la fatica del legislatore comunitario a regolarli compiutamente. L'incompiutezza della disciplina comunitaria - momento intermedio in vista del recepimento nazionale - e la divaricazione tra le legislazioni degli Stati dell'Unione sono due fattori che influenzano negativamente lo sviluppo della normativa in parola.

2. Il credito al consumo è, sotto il versante economico, un importante canale di finanziamento attraverso cui la domanda di beni, cosiddetti "durevoli" (mezzi di trasporto, apparecchi radio televisivi ed elettrodomestici in genere, strumenti musicali etc.), può essere soddisfatta oltre il limite del reddito del richiedente mediante un differimento temporale dei pagamenti. In questa definizione è sottinteso il carattere storicamente contemporaneo del fenomeno, proprio di società industrialmente e finanziariamente mature.
Con l'avvento, a partire dagli inizi del secolo trascorso, di una produzione su larga scala dei beni di consumo, con conseguente loro commercializzazione e distribuzione di massa, le problematiche della espansione della domanda dei beni in parola e della stessa esistenza della struttura industriale di produzione vengono invece a coincidere, atteso che questa, per potersi giustificare ed espandere, postula il crescente assorbimento da parte del mercato dei beni di consumo prodotti.
La vendita a rate o vendita con riserva della proprietà era lo strumento giuridico originariamente volto a regolare rapporti della specie. Svolgendosi il negozio tra due parti, l'allocazione del rischio ed i profili di imputazione della responsabilità seguivano i consueti canoni formalizzati dalle relative norme civilistiche a disciplina di operazioni economicamente e giuridicamente corrispondenti.
A seguito della crescita dei consumi e per effetto di una più elevata propensione all'indebitamento, il fenomeno inizia ad assumere dimensioni sempre più vaste.
Muta, conseguentemente, anche la struttura del rapporto, in quanto il credito viene ora fornito da un terzo specializzato (banche, istituti finanziari), il cui intervento ha una duplice funzione: quella di procurare al consumatore il finanziamento per l'acquisto dei beni o dei servizi e di fornire al circuito della distribuzione i capitali necessari. Altro importante effetto è quello di far ulteriormente crescere verso l'alto la curva della domanda dei beni, stante tanto la disponibilità da parte dei finanziatori istituzionali di una capillare rete distributiva che consente di raggiungere un alto numero di clienti finali, quanto l'esistenza (per gli operatori bancari) di un costo della raccolta particolarmente basso, che consente di offrire alle famiglie finanziamenti a tassi inferiori rispetto a quelli praticabili in una normale vendita a rate finanziata direttamente dal commerciante.
Questa nuova figura contrattuale - in cui è comparso un terzo soggetto - pur essendo caratterizzata da una nuova allocazione del rischio non spinge, però, il legislatore a ridisegnarne prontamente i contorni. Di certo non si può dimenticare che il credito al consumo in Italia, pur avendo presentato rilevanti tassi di crescita sino agli anni '90, è stato poi caratterizzato da un limitato sviluppo rispetto agli altri paesi del G7. Solo dal 1997, stante anche la concessione di incentivi per il rinnovo del parco auto, si è avuto un nuovo incremento agevolato pure - nel corso degli ultimi anni - da una politica dei tassi più favorevole al consumatore.

3. Prima di analizzare quale è stata l'evoluzione della disciplina del credito al consumo in Italia, appare opportuno fornire una descrizione delle caratteristiche salienti della disciplina in essere nei principali paesi europei.
Osservando l'attuale scenario giuridico, economico, imprenditoriale della società civile si nota che si tende progressivamente a dismettere strumenti d'analisi esclusivamente domestici per proiettarsi verso lo studio di istituti, soluzioni e prassi contrattuali comparabili in chiave non solo europea ma, talora, anche mondiale. La parola magica che, anche sul piano speculativo, sintetizza il mutamento di costume, è "globalizzazione".
Questo mutamento di prospettiva non può non coinvolgere anche la disciplina del contratto e quindi le diverse tecniche giuridiche di tutela del consumatore.
Se poi si considera che è nel rapporto tra autonomia privata e disciplina legislativa che si gioca la vera partita della comparabilità degli ordinamenti e che norme primarie inidonee a favorire l'espansione delle dinamiche negoziali a ritmi corrispondenti a quelli economici mortificano mercati, consumatori, concorrenza, si comprende quanto sia necessaria la conoscenza di soluzioni adottate altrove sia per poter esprimere un giudizio sul diritto interno che a fini applicativi da parte del giudice domestico.
L'attenzione verrà ad appuntarsi sui sistemi francese, tedesco ed anglosassone.

4. La legislazione francese in tema di credito al consumo, addirittura precedente rispetto alla disciplina comunitaria, va ritrovata nella legge n. 66 - 1010 del 28 dicembre 1966 (relativa all'usura, ai prestiti monetari ed a talune operazioni di promozione e di divulgazione) che contempla una specifica norma la quale estende l'applicazione ai "crediti concessi in occasione di vendite a rate" della disposizione anti - usura.
E' tuttavia con la c.d. Loi Scrivener n. 78 - 22 del 10 gennaio 1978, relativa "à l'information et à la protection des consommateurs dans la domaine de certaines operations de credit", che la protezione dell'utente di servizi finanziari finalizzati al consumo diviene evidente ed effettiva. La legge opera fondamentalmente su due versanti: quello di richiedere un'ampia diffusione delle informazioni relative all'operazione di credito onde rendere il consumatore consapevole dell'impegno, assicurandogli anche un periodo di riflessione di sette giorni successivi all'accettazione dell'offerta preliminare, e quello di dettare disposizioni relative allo stesso contenuto del contratto.
Per quanto riguarda gli obblighi di trasparenza, il legislatore francese parte dalla natura di contratto di massa stabilendo anzitutto la rilevanza di ogni forma di promozione che dovrà precisare le caratteristiche del mutuante, l'oggetto e la durata dell'operazione, il tasso globale, il costo totale nonché le spese forfettarie da sostenere.
Non viene prevista dal legislatore transalpino una responsabilità solidale del finanziatore e del fornitore in caso di inadempienza di quest'ultimo, mentre si sancisce chiaramente la decorrenza delle obbligazioni del mutuatario a partire dalla consegna del bene o della prestazione.
Tutte queste disposizioni, insieme alle altre che compongono la Loi Scrivener, sono confluite nel Libro III del recente Code de la consommation di cui alla l. n. 93 - 949 del 26 luglio 1993, intitolato all'indebitamento (endettement). Del "codice" fanno parte altri quattro Libri, dedicati alla Informazione dei consumatori ed alla formazione del contratto (il Primo), alla Garanzia ed alla sicurezza dei prodotti e dei servizi (il Secondo), alle Associazioni dei consumatori (il quarto), alle Istituzioni (il quinto).
E' con riferimento al Codice che, anche in Francia, emergono delicate questioni sull'ambito soggettivo di applicabilità delle relative disposizioni, stante la portata non univoca della locuzione "non professionale" che segna il discrimen tra legislazione speciale a tutela del contraente debole nei contratti di massa e disciplina ordinaria del contratto.
Ad una nozione estensiva di consumatore, che considera tale anche il professionista quando agisce al di fuori della sua sfera di competenza, si contrappone altra nozione che esalta la portata letterale del ridetto inciso, sottolineando che consumatori non possono che definirsi solo "ceux qui se procurent ou qui utilisent des biens ou des services pour un usage non professionnel" ; per i fautori di questo orientamento, solo una definizione restrittiva permette di assicurare coerenza alla nozione e rigore interpretativo.
Il radicale dissidio tra le due opposte teorie ha condotto la dottrina a promuovere il tentativo di definire l'ambito di applicazione della legge non in base ad una definizione astratta di consumatore, ma attraverso un sistema di presunzioni semplici.

5. La peculiarità dell'apparato protettivo inglese rispetto ad omologhe esperienze continentali a tutela del consumatore è rappresentata, più ancora che dal noto Consumer Credit Act del 1974, dal più generale Fair Trading Act dell'anno precedente. La policy legislativa del Regno Unito si muove, fin da subito, nella consapevolezza della strettissima interrelazione esistente tra protezione del consumatore e disciplina della concorrenza.
Per questo motivo, nell'affiancare la regolamentazione amministrativa alla disciplina privatistica è stato istituito l'Office of Fair Trading con compiti di controllo sui monopoli; sulle fusioni e sulle incorporazioni societarie; sulle tecniche contrattuali idonee a creare restrizioni della concorrenza; sulle operazioni finanziarie e sulla commercializzazione dei prodotti finanziari; sulle operazioni di credito al consumo.
Così come in Francia, la legislazione del Regno Unito dedica notevole attenzione all'attività sollecitatoria; è presente un generale divieto di propaganda al di fuori della sede di commercio dell'offerente; è, infine, assolutamente vietato l'inoltro a minori di stampati sollecitatori di operazioni di credito al consumo.
La definizione di credito al consumo è data nella sect. 8.(2) dell'Act. "Un contratto di credito al consumatore (consumer credit agreement) è un contratto di credito personale attraverso il quale il creditore procura al debitore un credito non superiore alle 5.000 sterline". Mancando ogni riferimento alla nozione di consumatore, la delimitazione della fattispecie diviene meramente quantitativa, eliminando alla radice ogni problema in ordine tanto alla qualità del debitore, quanto alla destinazione d'uso del credito. Uniche esenzioni sono poi quelle relative ad operazioni di modestissimo importo, ad operazioni concentrate in sole tre rate e, più in generale, ad operazioni di credito fondiario.
Forma del contratto e diritto di recesso del consumatore costituiscono le principali tecnicalità adoperate dal legislatore inglese a tutela della parte più debole.
Quanto al primo aspetto, la sect. 60. (1) assegna al Secretary of State il compito di "stabilire normative secondo la forma ed il contenuto dei documenti che includono contratti regolamentati".
Per quanto riguarda il diritto di recesso, la legge stabilisce che entro i cinque giorni successivi al ricevimento di copia del contratto o, comunque, entro il quattordicesimo giorno dalla sottoscrizione del contratto, è conferita al debitore la facoltà di notificare a controparte un avviso che, in forma scritta, "segnali l'intenzione...di ritirarsi dal contratto" [sect. 69. (1)], con l'effetto di "cancellare il contratto ed ogni operazione collegata" e conferire al consumatore un diritto di ritenzione sui beni oggetto dell'operazione, fino al totale recupero di quanto pagato. Ed invero, diversamente dalla evoluzione domestica del credito al consumo che trae dalla scomposizione del rapporto economicamente unitario ragione per l'aggiramento della elementare disciplina civilistica, l'ordinamento del Regno Unito considera risultato affatto naturale quello della operatività di una medesima disciplina tanto nel rapporto di coppia, quanto in quelli eventualmente collegati (c.d. linked transactions). Testimonianza a ciò è fornita anche dalla protezione del consumatore per i vizi della cosa, visto che il creditore, ove non corrispondente al venditore, risulta essere corresponsabile solidale di questi nei confronti del consumatore.

6. L'esperienza tedesca fa registrare altrettanta intensa protezione della parte debole del rapporto contrattuale nelle operazioni di credito al consumo. Tutta la legislazione, a partire dall'Abzahlungsegesetz del 1894 fino alla recente legge del 17 dicembre 1990 (Verbraucherkreditgesetz) attuativa delle direttive comunitarie sulla materia che ci occupa, sottrae, da un lato, questa categoria negoziale alla regola di neutralità dell'atto di autonomia e, dall'altro, evidenzia una spiccata propensione di quel legislatore e di quei giudici a concepire questo comparto come caratterizzato da proprie regole di ordine pubblico economico a tutela di interessi collettivi.
La sfera soggettiva di applicabilità della legge è limitata ai contratti di credito conclusi con il consumatore. In ciò la legge tedesca si diversifica dalle similari disposizioni contenute nelle discipline francese ed inglese, ove il limite quantitativo viene usato come unico discrimine di questo tipo di contratti, ed anche dalla legge italiana, visto che, diversamente da questa, non ricorre una chiara definizione di consumatore, ma il relativo concetto si ricava, per esclusione, dal tenore della norma che qualifica il contratto di credito come quello "per mezzo del quale un creditore concede, o promette di concedere, ad un consumatore un credito a titolo oneroso, in forma di mutuo, di dilazione o di una ulteriore facilitazione finanziaria" (art. 1, co. 2). E dunque, escludendo l'applicabilità ad ipotesi di credito "destinato al finanziamento" (dell'esercizio) "dell'attività commerciale o professionale" del sovvenuto (art.1, co. 1), la disciplina sul credito al consumo si applica a casi quali "l'avvio di una attività commerciale o di lavoro autonomo che prevede un'erogazione" non "superiore ai 100.000 marchi" (art. 3, co. 1, n. 2).
Sotto il versante dell'oggetto, la legge ricomprende tra i contratti sottoposti alla particolare disciplina tutti quelli che, a fronte di una erogazione creditizia o di una prestazione di beni o servizi per un valore non inferiore a 400 marchi, prevedano il pagamento rateale del corrispettivo a carico del consumatore, con una dilazione onerosa non superiore ai tre mesi.
Particolarmente dettagliata è la disciplina dei doveri di informazione e di ulteriori formalità: la loro inosservanza genera la nullità del contratto, anche se sono presenti, nella norma dell'art. 6 che detta le conseguenze per difetti di forma, numerose ipotesi di sanatoria.
La disciplina del diritto di recesso del consumatore è contemplata nel successivo art. 7, che prevede che la dichiarazione di volontà divenga efficace "solo quando il consumatore non la revoca entro il termine di una settimana" dalla consegna del testo contrattuale contenente le informazioni circa l'esercizio di questo diritto.
La norma che meglio coglie i reali bisogni di tutela del consumatore all'interno del mercato dei beni considerati è tuttavia l'art. 9 della legge, intitolato ai negozi collegati. Qui si precisa che "un contratto di acquisto è da considerarsi collegato ad un contratto di credito se il credito risulta essere funzionale al finanziamento dell'acquisto ed entrambi i contratti sono perciò da considerarsi in un'ottica di unicità economica". In questo modo risulta più semplice estendere la revoca (o il recesso) al negozio collegato.

II

DISTRIBUZIONE DEL RISCHIO E TRASPARENZA DELLE CONDIZIONI CONTRATTUALI NEL DIRITTO COMUNITARIO.
 


Come si è visto, la disciplina comunitaria sul credito al consumo è contenuta nella fondamentale direttiva CEE n. 102 del 22 dicembre 1986 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri nella materia in oggetto, la quale rappresenta il momento conclusivo, il risultato di un iter iniziato nel 1974 con la predisposizione, da parte della Commissione, di un avant project e proseguito con la Proposta del 1979, successivamente modificata nel 1984.
A questa direttiva sono seguiti altri importanti atti comunitari (in particolare, la direttiva n. 90/88 CEE e n. 98/7 CE), tuttavia relativi al solo profilo concernente contenuti e metodo di calcolo del tasso annuo effettivo globale (TAEG).
Prima dell'avvento della legge italiana di recepimento della direttiva, oggetto di analisi è stato l'inadempimento del contratto di credito al consumo nei casi in cui esso abbia quale elemento dominante la presenza di un terzo soggetto che provveda al finanziamento dell'operazione. Questa nuova figura contribuiva a realizzare una completa separazione della relazione datore di credito-consumatore (derivante dal contratto di finanziamento) da quella venditore-consumatore (collegata al contratto di compravendita). La ovvia conseguenza è l'inopponibilità al finanziatore delle eccezioni relative al contratto di compravendita e l'aggiramento della normativa sulla vendita con riserva di proprietà.
In particolare, concernendo la norma di cui all'art. 1525 cod. civ. la vendita a rate sarebbe risultata inapplicabile al caso di specie l'eccezione, da parte del consumatore, che il mancato pagamento di una sola rata, ove non superiore all'ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, allorquando nella domanda di finanziamento fosse stata inserita una clausola che preveda a carico del consumatore la decadenza dal beneficio del termine rispetto alle rate successive nel caso di ritardo o di mancato pagamento anche di una sola rata, trattandosi appunto di contratto diverso dalla vendita con riserva di proprietà. In questo modo, l'operatività di tali clausole di decadenza costituisce la premessa per la utilizzazione di onerose tecniche di refinancing a cui il consumatore molto spesso, nell'impossibilità di adempiere, si sottopone anche per impedire quella situazione di insolvenza che gli precluderebbe ogni ulteriore possibilità di ricorso al credito nel consumer finance market.
Così pure, diversamente da quanto previsto dall'art. 1526 cod. civ. che, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore prevede - a carico del venditore - la restituzione delle rate riscosse "salvo il diritto ad un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno", il finanziatore, a seguito dell'inadempimento del consumatore nelle rate di rimborso (rectius, in una sola rata, indipendentemente dal suo ammontare), potrà agire esecutivamente sul bene acquistato dal consumatore grazie al finanziamento, atteso che tale bene è costituito in garanzia del finanziamento stesso. Ove dalla vendita forzata del bene non si sia soddisfatto l'intero credito, potrà pretendere dal consumatore la differenza, salvo sempre il diritto al risarcimento del danno.
Quanto alle vicende inerenti all'inadempimento del venditore (mancata consegna del bene, ovvero consegna di cosa viziata o non avente le qualità promesse), la richiamata scissione dell'operazione in due contratti (rispettivamente, di compravendita e di mutuo), configurati autonomanente, determinava l'inopponibilità al finanziatore della exceptio inadimplenti contractus, atteso che la eccezione di inadempimento avrebbe qui avuto ad oggetto obbligazioni nascenti da un contratto diverso da quello di compravendita.
A fronte di tale vicenda la dottrina, muovendo dal rilievo che il contratto di finanziamento, in quanto inserito in una più vasta trama di relazioni intercorrenti tra i partecipanti all'operazione, ha, nel corso degli anni, sottolineato l'esigenza di un necessario superamento della cennata prospettiva.
Da queste osservazioni si giustifica il ricorso ad una delle tecniche giuridiche, quella del collegamento negoziale, maggiormente usate per tentare una difficile ricomposizione degli interessi in gioco nei casi in cui la mancata corrispondenza dell'operazione economica ad uno dei tipi contrattuali disciplinati dal legislatore determini la necessità di ricostituire una qualche tutela in capo all'acquirente-consumatore.
Il contratto di credito al consumo (id est, la pluralità degli atti posti in essere al fine di conseguire il risultato dell'operazione economica) viene così considerato quale contratto atipico trilaterale riconducibile ad una pluralità di cause distinte tra loro ma preordinate alla realizzazione della funzione economico-sociale di uno dei negozi collegati, i quali pertanto vengono a trovarsi, tra loro, in un rapporto per cui la validità e l'efficacia di uno di essi influenza la validità e l'efficacia dell'altro.
convenzione trilaterale" (12)2. Può perciò facilmente comprendersi come l'attesa di una direttiva comunitaria in materia di credito al consumo fosse particolarmente sentita in Italia, a causa sia dell'assenza di una legislazione specifica, sia delle perplessità a considerare sufficiente il ricorso al collegamento negoziale per realizzare un contemperamento degli interessi delle parti contrattuali almeno pari a quello previsto dal legislatore in tema di vendita con riserva della proprietà.
Il vincolo imposto al legislatore interno di emanare norme tese ad evitare la possibilità di un ingiustificato danno per una delle parti appariva, a tal stregua, attento alle conseguenze che la scissione della complessiva operazione economica in due negozi (vendita e mutuo) poteva comportare, e cioè l'aggiramento delle norme che regolano gli effetti dell'inadempimento dell'acquirente nella vendita con riserva di proprietà, con conseguente sottoposizione dei beni ad una procedura esecutiva il cui risultato non è quello di liberare il debitore dall'obbligazione, ma solo di verificare se il ricavato della vendita del bene soddisfi o meno il mutuante, essendo il consumatore - in caso contrario - tenuto al versamento del residuo.
Al fine di realizzare un equilibrio delle posizioni giuridiche delle parti prima ancora della conclusione del contratto venivano inoltre previste, tanto nell'avant project quanto nelle evoluzioni successive, norme volte ad informare il consumatore sui fattori e sugli elementi che possono esercitare un'influenza rilevante ai fini del compimento dell'operazione economica di acquisto, con particolare attenzione alla prevenzione di messaggi pubblicitari misleading. Quale rimedio di carattere generale, utilizzando un meccanismo presente nella legislazione francese sul credito al consumo, noto al legislatore italiano in tema di regolamentazione delle vendite a domicilio di valori mobiliari (art. 18-ter della legge 7 giugno 1974, n. 216), veniva inoltre prevista l'istituzione di un periodo di riflessione di almeno sette giorni a favore del consumatore per recedere dal contratto di credito che fosse stato il risultato di una visita "ricevuta dal consumatore senza sua preventiva richiesta" (art. 4 della proposta del 13 giugno 1984).
Di tali avanzate proposte la direttiva n. 87/102 del 22 dicembre 1986 recepiva tuttavia le indicazioni più marginali.
Non si può omettere di segnalare, anche al fine di comprendere la portata complessiva della direttiva in parola, la scomparsa, nel testo di questa, della norma in tema di delai de réflexion (la cui previsione diviene meramente facoltativa a norma dell'art. 4 par. 3), con conseguente ridimensionamento del complessivo disegno di protezione dei mutuatari deboli.
E' anzitutto opportuno precisare che le norme contenute nella direttiva 87/102 hanno ad oggetto tutti i contratti di credito, cioè quei contratti in base ai quali il creditore concede o promette di concedere al consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra analoga facilitazione finanziaria (art. 1, par. 2, lett. c), tranne i contratti elencati all'art. 2 della direttiva stessa, e cioè principalmente quelli destinati all'acquisto di diritti di proprietà su terreni o immobili, ovvero al restauro o al miglioramento di immobili, ovvero i contratti di locazione, con esclusione dei contratti di leasing, ovvero i contratti di credito che non prevedano remunerazione degli interessi. Sono inoltre sottratti alla sfera di operatività della direttiva i contratti di credito stipulati sotto la forma della apertura di credito in conto corrente, diversi dai conti coperti da una carta di credito, ai quali tuttavia sono applicabili le disposizioni in tema di informazioni al consumatore, nonché quei contratti che prevedano il rimborso del credito da parte del consumatore entro un termine breve, nonché, infine quei contratti relativi ad importi particolarmente modesti.
All'art. 7 viene previsto, sotto il profilo dell'inadempimento del consumatore, che "in caso di crediti concessi per l'acquisizione di beni, gli Stati membri stabiliscono le condizioni alle quali il bene può essere recuperato, in particolare quando il consumatore non abbia dato il suo consenso. Essi curano inoltre che, quando il creditore rientra in possesso del bene, i conteggi tra le parti siano stabiliti in modo che tale recupero non comporti un ingiustificato arricchimento".
Trattasi dunque di una norma decisamente meno favorevole al consumatore della corrispondente previsione inserita nel progetto di direttiva. Al fine di recuperare dalla prescrizione comunitaria spunti esegetici favorevoli al consumatore, osservavo, in sede di primo commento alla direttiva , che ove il rinvio all'ingiustificato arricchimento avesse implicato al legislatore interno il mero richiamo al relativo istituto, la previsione stessa sarebbe risultata, per l'Italia, decisamente inutile, attesa la natura di rimedio generale dell'azione ex art. 2041 cod. civ..
Ai fini di una corretta attuazione della norma in parola, il legislatore interno avrebbe dovuto porre in essere una serie di disposizioni che: 1) definiscano quando si abbia inadempimento da parte del consumatore; 2) stabiliscano le condizioni alle quali il bene può essere recuperato; 3) precisino se si abbia o meno risoluzione del rapporto e, nel caso negativo, entro quali limiti sia ancora obbligato il consumatore.
Ipotesi a sé rappresenta, nella direttiva, l'inciso "quando il consumatore non abbia dato il suo consenso", poiché in questo caso al legislatore interno sembra rimessa l'emanazione di una disciplina in qualche modo differenziata da quella ordinariamente volta a regolare le condizioni alle quali il bene può essere recuperato.Più chiara è invece la previsione che regola la facoltà per il consumatore di adempiere in via anticipata gli obblighi che gli derivano dal contratto di credito, statuendo che "in tal caso, in conformità alle disposizioni degli Stati membri, egli deve avere diritto ad un'equa riduzione del costo complessivo del credito" (art. 8).
Anche rispetto all'ipotesi di inadempimento del venditore la direttiva offre soluzioni meno avanzate rispetto alle aspettative che potevano nutrirsi in base alle proposte progressivamente succedutesi, soprattutto in quanto della responsabilità solidale tra fornitore e creditore nel caso di inadempimento del primo.
Ci si limita a prevedere, al primo paragrafo dell'art. 11, che "gli Stati membri provvederanno affinché l'esistenza di un contratto di credito non pregiudichi in alcun modo i diritti del consumatore nei confronti del fornitore di beni o di servizi acquisiti in base a tale contratto qualora beni o servizi non siano forniti o non siano comunque conformi al contratto di fornitura".
La disposizione in parola va pertanto letta insieme alle precedenti norme della direttiva che, da un lato, prevedono la possibilità da parte del consumatore di far valere nei confronti del terzo cessionario le eccezioni ed i mezzi di difesa che poteva far valere nei confronti del creditore originario, ivi compreso il diritto alla compensazione in quanto ammesso nello Stato membro (art. 9) e, dall'altro, statuiscono che, ove al consumatore sia consentito di effettuare pagamenti ovvero di offrire garanzie a mezzo di titoli cambiari et similia, gli Stati membri debbono provvedere a che "il consumatore sia adeguatamente protetto in tale uso di questi strumenti" (art. 10).
La presenza del finanziatore è invece considerata nel secondo paragrafo della norma di cui all'art. 11, la quale prevede che il consumatore ha diritto di procedere contro il creditore solo subordinatamente alla sussistenza delle seguenti condizioni: 1) venga in considerazione un contratto di credito "finalizzato", concluso cioè con persona diversa dal fornitore, ma a questi legata da un precedente accordo in base al quale il credito è messo esclusivamente da quel creditore a disposizione dei clienti di quel fornitore per l'acquisto di merci o di servizi di tale fornitore; 2) ottenuto il credito, al consumatore non vengano forniti i beni o i servizi considerati nel contratto di credito, o vengano forniti solo in parte, o non siano conformi al contratto di fornitura; 3) il consumatore "ha proceduto contro il fornitore, ma non ha ottenuto la soddisfazione cui aveva diritto".
E' in realtà, quest'ultimo punto a stravolgere la precedente proposta in quanto, grazie ad esso, la responsabilità del creditore, da solidale qual era, diviene meramente sussidiaria.
Ciò è tanto più singolare quando si osservi che la stessa direttiva riconosce un collegamento negoziale tra l'acquisto dei beni ed il contratto di credito finalizzato proprio a quell'acquisto.

3. Sul piano della trasparenza vengono, nella direttiva, principalmente in considerazione la disciplina del tasso annuo effettivo globale (TAEG), da un lato, quella sulla forma e sui contenuti del contratto, dall'altra.
Con riferimento al primo degli istituti ora menzionati, l'originario art. 3 della direttiva n. 87/102 testualmente disponeva che "nella pubblicità o nelle offerte esposte negli uffici commerciali deve essere citato anche, espresso in percentuale, il tasso annuo effettivo globale…….".
La definizione del TAEG era invece contemplata dall'art. 1, il quale precisava che per "tasso annuo effettivo globale" dovesse intendersi "il costo globale del credito al consumatore, espresso in percentuale annua dell'ammontare del credito concesso e calcolato secondo i metodi esistenti negli Stati membri" (lett. e); che per "costo totale" (equivalente a "globale") del "credito al consumatore" dovessero invece intendersi "tutti i costi del credito compresi gli interessi e gli altri oneri connessi con il contratto di credito, determinati conformemente alle disposizioni o alle prassi esistenti o da stabilire negli Stati membri" (lett. d).
Da ciò due considerazioni, puntualmente segnalate in dottrina. La prima è che la direttiva non pone obblighi di pubblicità a carico dei soggetti che intendano svolgere direttamente attività di concessione di credito al consumo.
La seconda che, nel rinviare alla disciplina dei singoli Stati membri la indicazione degli elementi utili a determinare il costo totale del credito, il legislatore comunitario dell'epoca di fatto rinuncia a fissare una regola uniforme in grado di garantire un più elevato livello di tutela del consumatore.
La situazione muta con la direttiva 90/88 del 22 febbraio 1990 che, attraverso l'introduzione di un articolo 1 bis, si perita di instaurare un unico metodo di calcolo del TAEG all'interno dei paesi dell'Unione, elaborando una formula matematica unica e determinando le componenti da prendere in esame nel calcolo stesso.
Le prescrizioni sulla forma e sul contenuto dei contratti di credito al consumo sono contemplate dall'art. 4 della direttiva.
L'incipit della norma dispone che "i contratti ….. devono essere conclusi per iscritto" e che "il consumatore deve ricevere un esemplare del contratto scritto" (par. 1).
Trattasi di prescrizione rigida, priva di eccezioni, che costituisce - segnatamente per la dottrina giuridica italiana - un forte segnale verso il ritorno ad una sorta di formalismo nei contratti di massa (rectius, nei contratti del consumatore).
A questo primo livello di tutela del consumatore si affianca, nel secondo paragrafo dell'art. 4, una più rafforzata forma di protezione informativa costituita dalla imposizione di un contenuto minimo obbligatorio del contratto.
La norma prevede che il documento scritto debba contenere: a) un'indicazione del tasso annuo effettivo globale espresso in percentuale; b) un'indicazione delle condizioni secondo le quali il tasso annuo effettivo globale può essere modificato; c) un estratto dell'importo, del numero e della periodicità o delle date dei versamenti che il consumatore deve effettuare per rimborsare il credito e pagare gli interessi e le altre spese, nonché l'importo totale di questi versamenti, quando ciò è possibile; d) un estratto degli elementi di costo che sono riportati nell'articolo 1-bis, paragrafo 2.
E' inoltre previsto che il documento scritto ricomprenda gli altri elementi essenziali del contratto e che gli Stati membri possano prescrivere la obbligatoria inclusione nel contratto di uno o più degli indicatori riportati in un elenco allegato alla direttiva.
 

III


FATTISPECIE NEGOZIALE, AMBITO DI OPERATIVITA', LIMITI DELLA DISCIPLINA ITALIANA.


1. L'emanazione della legislazione interna sul credito al consumo, coeva a quella sulla trasparenza bancaria (portata dalla legge n. 154 del 17 febbraio dello stesso 1992), è subito segnata da problemi di coordinamento con quest'ultima.
Giova ricordare che il quinto comma dell'art. 21 della legge 142/1992 sul credito al consumo disponeva che "fino all'adozione di una disciplina nazionale sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari di contenuto almeno equivalente a quello stabilito dal presente comma...agli effetti della protezione del consumatore, i contratti con cui un ente creditizio o una società finanziaria concedono ad un consumatore un'apertura di credito in conto corrente non connessa all'uso di una carta di credito devono almeno contenere...le seguenti indicazioni"...omissis... (corsivi dell'autore). Ma proprio il fatto che la legge sulla trasparenza fosse stata approvata e promulgata anteriormente a quella sul credito al consumo, ma pubblicata successivamente in Gazzetta Ufficiale, aveva determinato problemi di coesistenza delle due leggi.
L'emanazione del Testo unico bancario (d. lgs. del 1° settembre 1993 n. 385) (d'ora innanzi: T.U.) pone a ciò rimedio con l'accorpamento nel Titolo VI delle due discipline, tra loro convenientemente coordinate.
Il loro inserimento in un testo legislativo prevalentemente destinato a regolare l'assetto pubblicistico del credito e del risparmio ha, in qualche caso, sollecitato non marginali perplessità.
Deve però osservarsi che tale disciplina ben difficilmente avrebbe potuto essere ospitata nel codice civile o, in alternativa, formare oggetto di una legge speciale ad hoc. E ciò per ragioni tanto formali (o, se si preferisce, di rigore concettuale) quanto, soprattutto, sostanziali, di effettività della tutela del risparmiatore.
Sotto il primo profilo va osservato che la disciplina codicistica dei contratti bancari (art. 1834 segg. cod. civ.) ha un perimetro per un verso più ampio, per altro verso più angusto rispetto alle normative di trasparenza bancaria e di credito al consumo. E' più ampia in quanto risulta applicabile non ai soli contratti caratterizzati dalla presenza di una banca, ma anche a contratti occasionalmente conclusi con un soggetto che non rivesta la qualità di banchiere e che faccia tuttavia ricorso ai tipi negoziali del codice civile; più angusta, molto più angusta, perché riguarda i soli contratti tipici e nominati del codice, mentre queste discipline sono di generale applicazione con riferimento a tutte le operazioni e servizi bancari (relativamente alla trasparenza), ovvero a tutti i contratti di credito al consumo come definiti dall'art. 121 T.U..
Né ricorrono ragioni che giustifichino l'adozione di leggi speciali che regolano i due istituti. Se è vero che il carattere settoriale degli interessi tutelati e la riferibilità delle disposizioni a singoli rapporti possono rappresentare motivazioni rilevanti per l'adozione di tale tecnica legislativa, non può sottacersi il fatto che le norme sulla trasparenza bancaria non costituiscono una disciplina unitaria, completa, onnicomprensiva del fenomeno né la legge sul credito al consumo introduce un nuovo tipo contrattuale.

2. Per credito al consumo - stabilisce l'art. 121, co. 1 T.U. - si intende "la concessione, nell'esercizio di un'attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria". Il richiamo alla concessione del credito nelle forme indicate tradisce l'intenzione di estendere ad ogni forma di finanziamento al consumo l'applicazione delle disposizioni speciali nel divisato obiettivo di assicurare l'applicazione della disciplina a tutela del consumatore in tutte le fattispecie rilevanti.
La normativa del T.U. non realizza una organica, compiuta disciplina del fenomeno ma piuttosto introduce regole comuni ai diversi schemi negoziali utilizzati per concludere operazioni di credito al consumo, additive rispetto a quelli. E' sicuramente importante poiché pone in rilievo il collegamento negoziale tra i diversi contratti in relazione ad un'operazione economicamente unitaria.
La disciplina suppone la previa conclusione del contratto, non trovando applicazione in ipotesi per le quali la erogazione del credito sia ancora allo stadio di trattativa o di contratto preliminare. La più ridotta sfera di operatività dell'ambito di applicazione della norma interna rispetto alla direttiva 87/102 - che contemplava anche la "promessa di concessione del credito - non pare, tuttavia, poter giustificare valutazioni critiche in tema di eventuale minor tutela accordata al consumatore domestico. Ove invero le parti siano ancora nella fase della trattativa, fermi gli obblighi di correttezza e buona fede del codice civile, troveranno comunque applicazione nei confronti dell'intermediario le prescrizioni in tema di pubblicità indicate dall'art. 123 T. U..
Se invece si passa a considerare la sollecitazione per il tramite di annunci pubblicitari, è necessario rifarsi al secondo comma della richiamata disposizione che stabilisce come il proponente debba indicare, oltre al tasso dell'interesse ed alle altre cifre concernenti il costo del credito, il TAEG ed il relativo periodo di validità. Ed è, per inciso, proprio in ragione di questa norma che diritto alla trasparenza delle condizioni contrattuali, costo totale del credito, tasso annuo effettivo globale (meglio noto nella forma del cennato acronimo TAEG), forma scritta, diritto di recesso, costituiscono espressioni ormai familiari, entrate a far parte del lessico corrente grazie alla cassa di risonanza fornita in proposito dai mezzi di comunicazione di massa.

3. Il ventaglio di ipotesi negoziali direttamente o indirettamente riconducibili alla riportata fattispecie legale "credito al consumo" appare, sul piano oggettivo, ampio e variegato.
A questa, invero, appartengono tanto la più elementare e risalente figura della specie, rappresentata dalla vendita a rate con riserva della proprietà ("credito sotto forma di dilazione di pagamento"), quanto ogni contratto di credito avente causa di finanziamento per l'acquisto di beni o la prestazione di servizi di consumo. Sono note le difficoltà di individuare in modo univoco ed incontrovertibile l'ampiezza concettuale della categoria dei contratti di credito. Può tuttavia, ai fini che qui vengono in considerazione, assumersi quale nozione di base della fattispecie quella che individua l'essenza di questi contratti nel trasferimento al tempo "t" della proprietà del danaro o di una quantità determinata di cose fungibili verso il differimento della restituzione per equivalente in un momento futuro.
Il problema maggiore consiste nella verifica della finalità della concessione del credito e nella possibile scomposizione dell'operazione economicamente unitaria in una pluralità di rapporti giuridici, rispetto ai quali ritorna attuale la risalente problematica del collegamento tra i contratti.
Diviene allora evidente come all'area tradizionalmente grigia e densa di incertezze sottesa alla teoria del collegamento negoziale si sommi, nella disciplina in rassegna, quella riveniente dalla incerta sfera di applicabilità della legge sotto il versante soggettivo tanto sul piano definitorio quanto su quello sistematico. Tale incertezza riguarda sia l'individuazione univoca del creditore che del debitore.
Molte perplessità fa nascere la considerazione dell'irriducibilità dell'operazione di credito al consumo a fattispecie negoziale giuridicamente unitaria. Come bene è stato osservato con più generale riferimento alle operazioni finanziarie caratterizzate da rapporti trilaterali (fornitore/consumatore/finanziatore) che sottendono profili cooperativi tra i diversi soggetti al fine del buon esito dell'affare, "ridurre la complessità di queste relazioni contrattuali entro gli angusti limiti dell'unitarietà strutturale….rappresenta una semplificazione ingiustificata di una specifica realtà…..".
E' dunque necessario verificare l'eventuale sussistenza di collegamento negoziale tra i diversi contratti tale da determinare effetti certi e conseguenze univoche in punto di estensione delle patologie di un contratto all'altro e, soprattutto, di opponibilità al finanziatore di eccezioni relative al contratto di fornitura e/o di compravendita.
Questa problematica risaliva ai primi organici contributi dottrinari sulla figura giuridica in discorso i quali tentavano attraverso la dimostrazione della sussistenza del collegamento tra i contratti di recuperare alla tutela del consumatore almeno le minimali garanzie della eccezione di inadempimento contenuta nel limiti dell'art. 1525 cod. civ..
Né l'emanazione della direttiva 87/102 C.E. risultava in grado di fugare le descritte perplessità, essendo venute meno nel testo definitivo le ipotesi, pure presenti nelle proposte preliminari, di responsabilità solidale tra fornitore e creditore nel caso di inadempimento del primo, con conseguente implicito riconoscimento di un collegamento tra i due negozi.
Il quadro di riferimento appare invece decisamente variato a seguito: 1) della introduzione nell'ordinamento interno della norma di cui all'art. 125, co. 4, T.U., analoga alla previgente disposizione contemplata dall'art. 22, co. 1, l. 19 febbraio 1992, n. 142; 2) della recente evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali in tema di collegamento negoziale.
Pur nel formale ambito della responsabilità sussidiaria del finanziatore, la legge italiana si mostra nei confronti del consumatore sicuramente più generosa e più garantista rispetto alla corrispondente prescrizione di diritto comunitario. Infatti non richiede che il consumatore abbia preventivamente agito nei confronti del fornitore, ma si limita a prescrivere "che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora", perché possa essere legittimato ad "agire nei confronti del finanziatore nei limiti del credito concesso". E' quindi evidente il mutamento di prospettiva che da ciò discende in punto di collegamento tra i due negozi. La responsabilità sussidiaria del finanziatore, liberata dal previo esperimento dell'azione esecutiva nei confronti del fornitore, si rivela solo nominalmente tale, svolgendo di fatto funzioni prossime a quelle della responsabilità solidale. In questo modo, la norma sull'inadempimento del fornitore sancisce anche formalmente il collegamento tra i due contratti, risultando "idonea a determinare la produzione di conseguenze che di per sé non potrebbero desumersi dalla semplice relazione funzionale intercorrente tra i due contratti".
Ciò trova conforto nella recente giurisprudenza tanto di legittimità quanto di merito che, non a caso muovendo proprio dalla introdotta prescrizione normativa, è pervenuta a risultati più generali (ed estensivi) in punto di collegamento negoziale.

4. Sono sottratte all'ambito di applicazione della disciplina le fattispecie indicate dal comma 4 del cennato art. 121 T.U. ossia i "finanziamenti di importo rispettivamente inferiore e superiore ai limiti stabiliti dal CICR con delibera avente effetto dal trentesimo giorno successivo alla relativa pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della repubblica italiana" (i limiti minimi e massimi continuano ed essere pari rispettivamente a lire trecentomila e lire sessanta milioni).
Riguardo a questa causa di esclusione, viene dalla dottrina evidenziata "la potenziale portata eversiva o elusiva della norma, nella misura in cui la fissazione di un importo inferiore al minimo stabilito possa diventare facile mezzo di aggiramento della disciplina da parte di chi frazioni il prestito in una pluralità di contratti di ammontare inferiore al minimo stabilito dal legislatore (o dal C.I.C.R.)"
Le successive esenzioni indicate nelle lettere c) ("finanziamenti rimborsabili in un'unica soluzione entro diciotto mesi e d) ("finanziamenti privi, direttamente o indirettamente, di corrispettivo di interessi o di altri oneri, fatta eccezione per il rimborso delle spese vive sostenute e documentate") hanno ad oggetto ipotesi di contratti di finanziamento che, per non prevedere il pagamento di oneri calcolati in forma di interesse, ovvero per costituire erogazioni fondamentalmente gratuite, giustificano la loro sottrazione alla disciplina garantistica del T.U..
Chiudono la lista le ipotesi dei finanziamenti relativi a beni immobili (lett. e) e quella dei contratti di locazione semplice (confermando, a contrario, la soggezione alla disciplina del cosiddetto leasing al consumo).
Per le aperture di credito in conto corrente non connesse all'uso di una carta di credito il T.U., diversamente dalla direttiva comunitaria (v. art. 2, lett. e), non contempla l'inapplicabilità della disciplina. Ciò in ragione della natura per così dire "bivalente" del contratto in parola, giacché se, da un lato, "l'apertura di credito è una delle forme di finanziamento alla quale, nella prassi, si ricorre più frequentemente per le concessioni di credito all'impresa", è, d'altro lato, evidente che "da questo contratto può derivare un tipo di rapporto che ha molteplici affinità con quello ricorrente nei contratti di credito al consumo". In ogni caso, anche con riferimento a quest'ultima ipotesi, l'applicabilità della disciplina sul credito al consumo appare difficile. E basti, al riguardo, riflettere sulla impossibilità tecnica del calcolo del tasso annuo effettivo globale (TAEG) in un rapporto per il quale i versamenti ed i prelievi del consumatore non sono generalmente determinati né nel quantum né nel quando.

5. Con l'attuazione della direttiva, l'esercizio in Italia del credito al consumo diviene attività riservata alle sole categorie di soggetti indicate nel secondo comma dell'art. 121, e cioè alle banche (lett. a); agli intermediari finanziari (lett. b); ai soggetti autorizzati alla vendita di beni o di servizi nel territorio della Repubblica, peraltro nella sola forma della dilazione del pagamento del prezzo (lett. c).
Accanto alle banche, come sopra definite, sono riservatari dell'attività gli intermediari finanziari contemplati nell'art. 106 come esercenti nei confronti del pubblico di un'ampia serie di attività finanziarie, come l'assunzione di partecipazioni, la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi, iscritte in un apposito elenco tenuto dall'Ufficio Italiano dei Cambi (U.I.C.).
Il controllo si articola con riferimento alle tre grandi aree nelle quali gli intermediari finanziari vengono suddivisi. Se non operano nei confronti del pubblico, sono sottoposti ad obbligo di iscrizione in una apposita sezione dell'elenco generale tenuto dall'U.I.C. e soggiacciono ai requisiti di onorabilità dei soci e degli esponenti aziendali determinati con regolamento dal Ministro del tesoro. All'interno dei soggetti che operano nei confronti del pubblico, la distinzione pertiene fondamentalmente alle caratteristiche dell'attività svolta. In via generale questi intermediari sono obbligati all'iscrizione nell'elenco dell'art. 106 (tenuto, come detto dall'U.I.C.) e sottoposti ai controlli tanto cartolari quanto (dopo le modifiche all'art. 106) ispettivi dello stesso Ufficio dei Cambi. Per gli intermediari la cui attività rileva nei circuiti di finanziamento dell'economia, sottendendo così maggiore rischio sistemico, è invece prevista l'iscrizione nell'elenco speciale dell'art. 107, tenuto dalla Banca d'Italia che esercita nei loro confronti una vigilanza regolamentare, informativa ed ispettiva molto simile a quella svolta nei confronti delle banche.
Il successivo terzo comma estende infine, in quanto compatibili, la disciplina legislativa sul credito al consumo e quella sulle regole generali e sui controlli anche a quanti svolgano attività di intermediazione finalizzata alla concessione del credito da parte del finanziatore.
Venendo, da ultimo alle sanzioni amministrative, mette conto far menzione della applicabilità nei confronti degli esponenti e degli stessi dipendenti di banche, intermediari finanziari ed imprese commerciali (nonché nei confronti di coloro che si interpongono nelle operazioni di credito al consumo) della sanzione pecuniaria fino a lire cento milioni per l'inosservanza delle dette prescrizioni dell'art. 128, ovvero per ostacolare l'esercizio delle funzioni di controllo innanzi descritte.
 

IV

LE TECNICHE DI TUTELA DEL CONSUMATORE.
 

1. In tema di credito al consumo, quando si parla di trasparenza, vengono in gioco la disciplina della pubblicità indicata dall'art. 116 T.U. come integrata dagli artt. 122 e 123 in tema di Tasso annuo effettivo globale (TAEG), l'art. 119 sulle comunicazioni periodiche alla clientela e l'art. 124, co. 2 e 3 in tema di prescrizioni contrattuali obbligatorie.
Il finanziatore dovrà quindi provvedere ad esporre "in ciascun locale aperto al pubblico" le condizioni del credito come da primo comma del ripetuto art. 116, indicare il TAEG ed il relativo periodo di validità.
L'indicazione del TAEG e del relativo periodo di validità dovrà inoltre assistere, prescrive il comma secondo dell'art. 123, "annunzi pubblicitari e…offerte, effettuati con qualsiasi mezzo, con cui un soggetto dichiara il tasso d'interesse o altre cifre concernenti il costo del credito". Non dunque ogni annunzio pubblicitario o ogni offerta sono sottoposti all'obbligo di indicazione del TAEG, ma solo quelli recanti dichiarazioni in ordine al tasso dell'interesse o ad altre cifre concernenti il costo del credito.
Il TAEG è il costo totale del credito a carico del consumatore, espresso in percentuale annua del credito concesso. Esso comprende gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito, incluso l'eventuale costo dell'interposizione di un terzo (art. 122, co. 3).
Diversamente da quanto disposto dal secondo comma dell'art. 122, le modalità di calcolo del TAEG, gli elementi da computare e la stessa formula di calcolo non sono stabiliti dal Comitato del credito con apposita delibera successiva all'entrata in vigore della norma, ma ancora dal d.m. 8 luglio 1992, anche in questo caso grazie al cennato meccanismo di ultrattività dell'art. 19, co. 2, l. 142/1992.
L'elemento di reale novità sotteso a questo indicatore dell'onerosità del finanziamento deriva dall'essere il TAEG un tasso di interesse effettivo a fronte della tradizionale vocazione del nostro ordinamento a prescegliere principi in un modo o nell'altro riferentisi a tassi di interesse nominali. La distinzione tra i due indicatori del debito risiede fondamentalmente nell'elemento temporale della riscossione dell'interesse che, a fronte di un interesse annuo nominale, può verificarsi (e, di fatto, si verifica) con riferimento a periodi inferiori all'anno (es: un trimestre, un semestre), con il vantaggio per l'intermediario di poter concedere ? con l'aliquota di interessi riscossa anticipatamente ? nuovi prestiti. Di converso, il TAEG è quel tasso che "rende uguali, su base annua, i valori attuali di tutti gli impegni (prestiti, rimborsi ed oneri) esistenti o futuri presi dal creditore e dal consumatore".
La disciplina del TAEG è stata parzialmente integrata dal recente d. lgs. 25 febbraio 2000, n. 63, attuativo della direttiva 98/7/CE di modifica della direttiva - cardine sul credito al consumo (e cioè della nota direttiva 87/102/CEE) che ha fondamentalmente riguardato due versanti: 1) la prescrizione di un unico metodo di calcolo del TAEG all'interno dell'Unione europea; 2) l'indicazione del TAEG attraverso un esempio tipico.
Questo tasso, che ha il pregio di esprimere in forma elementare il costo finanziario del contratto, pur non essendo in grado di garantire, da solo, la qualità del contratto, è un indicatore sintetico di immediata percezione, idoneo a favorire comportamenti economicamente razionali e consapevoli.
Queste funzioni, questi scopi sono di estremo interesse e di sicura utilità a fini di progressivo accrescimento della consapevolezza da parte del consumatore nella selezione dell'offerta prima, nella conclusione del contratto poi.
Su un piano parallelo, meno immediato ma non meno importante, l'introduzione di detto strumento, le sue strutturali connotazioni rivolte verso la definizione di un tasso di interesse effettivo anziché nominale com'è invece prassi dell'ordinamento, hanno costituito una tappa significativa nella progressiva erosione, ad opera della giurisprudenza, della liceità dell'anatocismo nei contratti bancari.

2. Ulteriore disposizione di rilievo nel processo di formazione della volontà consapevole del consumatore è rappresentata dall'art. 124, in parte già richiamato per ciò che attiene alle prescrizioni obbligatorie in materia di TAEG.
L'incipit della norma ha ad oggetto l'applicazione, anche per il credito al consumo, del requisito della forma scritta del contratto, con consegna di un esemplare al cliente, di cui all'art. 117 co. 1, T.U., e della sanzione di nullità del contratto a fronte dell'inosservanza del prescritto requisito formale.
Mette conto, in questa sede, sottolineare come, a fronte di una norma che prevede due specifici adempimenti a carico del finanziatore (redazione del contratto in forma scritta e consegna di un esemplare al consumatore), venga espressamente sanzionata con la nullità del contratto, invocabile dal cliente (nullità relativa), l'inosservanza di uno solo di essi, e cioè del solo requisito della forma scritta.
Il successivo comma dedicato ai "contratti di credito al consumo che abbiano ad oggetto l'acquisto di determinati beni o servizi", prescrive, sempre a pena di nullità relativa, ulteriori obblighi di trasparenza informativa. La fattispecie riguarda atti di finanziamento teleologicamente volti all'acquisto di beni o di servizi determinati fin dall'erogazione del credito, per i quali si pone il problema di fornire al consumatore informazioni sulle caratteristiche dell'oggetto aggiuntive rispetto a quelle più propriamente "finanziarie" del contratto di credito. Dunque mutuo di scopo e, in generale, ogni altro contratto collegato a quello di finanziamento per l'acquisto di beni o servizi ed anche tutte le forme del c.d. leasing traslativo al consumo, visto che espressamente la lett. c) del cennato terzo comma prescrive vengano indicate "le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato", evocando con ciò proprio la fattispecie ora richiamata.
Altra problematica che pertiene alla identificazione del perimetro applicativo dell'art. 127, co. 2, T.U. è quella concernente la possibilità o no per il giudice di rilevare d'ufficio fattispecie di nullità di clausole del contratto di credito al consumo.
Ed è problema non soltanto teorico, di teoria generale del contratto, ma anche e (forse) soprattutto pratico, visto che una recente sentenza proprio in materia di credito al consumo ha fornito risposta decisamente affermativa alla questione. Pur non sottacendo le difficoltà sottese alla "laconicità della norma", il Pretore di Bologna ritiene che la "tutela giuridica diseguale" statuita dal secondo comma dell'art. 127 T.U. sia tesa a favorire "l'affermazione di un modello di mercato caratterizzato tanto dalla libertà di accesso per le imprese quanto dalla libertà di scelta dei consumatori" in guisa di "obbiettivo fondamentale del progressivo riavvicinamento operato dal legislatore comunitario e nazionale tra diritto della concorrenza e diritto dei consumatori". Detto interesse generale, avente rilevanza pubblicistica, denoterebbe "le numerose norme di favore per il cittadino/consumatore/utente/cliente contenute nel codice civile e nella legislazione speciale….al cui presidio è solitamente apprestata una disciplina di natura imperativa". Tra queste risulta sicuramente compreso l'art. 1469 - quinquies, comma 3, cod. civ. che, "nell'attribuire un ruolo attivo al giudice ai fini di promozione dei diritti dei consumatori rispetto ai canoni di lealtà commerciale, delinea un modello misto tra nullità assolute e relative, che pare analogo a quello più ermeticamente descritto dall'art. 127, comma 2, del testo unico bancario". Da ciò la conclusione, a questo punto largamente prevedibile, che "le nullità del Capo VI del testo unico in materia bancaria possano/debbano essere rilevate d'ufficio" limitatamente ai casi in cui "esse si traducano in un vantaggio per il cliente.

3. Gli ultimi due commi dell'art. 124 contengono tipiche norme di protezione del consumatore che incidono sull'autonomia negoziale dell'impresa, escludendo, a pena di nullità, la possibilità di pervenire alla conclusione del contratto in maniera difforme da quella statuita in via imperativa.
In tal guisa, "nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse previsioni contrattuali", esordisce il quarto comma, e, aggiunge, "le clausole di rinvio agli usi per la determinazione delle condizioni economiche applicate sono nulle e si considerano non apposte".
La prima parte della norma parrebbe reiterativa di principi consolidati. La seconda parte, invece, può da un lato giustificarsi con la obbligatorietà del requisito della forma scritta del contratto (e ribadire così la inopponibilità al consumatore di quanto non espressamente contemplato nel documento), e, dall'altro, assumere una valenza pregiudiziale esplicitando la preclusione ad ogni forma di determinazione (o di determinabilità) dei contenuti del contratto attraverso rinvio ob relationem agli usi.
L'inosservanza del precetto è sanzionata con la nullità parziale che, nella fattispecie contemplata nel successivo comma (assenza o nullità della clausole contrattuali prescritte), conduce alla integrazione del contratto con la sostituzione di diritto delle clausole assenti o nulle nelle forme ivi determinate. Il principio accolto è pertanto quello della conservazione del contratto nell'interesse del consumatore tranne, come si è visto, che per l'assenza del requisito della forma scritta.
Quale norma si applica all'assenza di forma scritta o alla difformità da quanto statuito per le altre prescrizioni in tema di contratti di credito aventi ad oggetto l'acquisto di determinati beni o servizi?
In materia di trasparenza bancaria, l'art. art. 117, co. 6, sancisce la nullità (parziale) delle clausole "che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati". La espressa previsione legislativa della fattispecie rende qui possibile ipotizzare il meccanismo sostitutivo delle clausole pubblicizzate a quelle contenute nel documento ove queste siano più sfavorevoli per i clienti. A fronte del silenzio del legislatore nella omologa previsione sul credito al consumo, risulta, in realtà, difficile poter pervenire ad identiche conclusioni, se non a quella della nullità (ovviamente relativa) dell'intero contratto. Avendo peraltro presenti i deleteri effetti della nullità del contratto per il consumatore, che conducono al rimborso immediato della somma avuta in prestito, può agevolmente cogliersi il carattere di lacunosità ed incompletezza di queste norme di trasparenza, nella sostanza prive di sanzioni per gli intermediari con scarsa propensione ad adeguare le proprie regole di condotta ai precetti legislativi. E' legittimo l'auspicio di integrazione della relativa disciplina, in modo che il soddisfacimento dei bisogni del consumatore possa avvenire attraverso percorsi paralleli che scoraggino l'adozione di comportamenti scorretti rispetto a standard deontologici uniformi da parte degli intermediari.
Segnalata la carenza legislativa, si ritiene comunque eccessivo far discendere da questa mancata previsione la conseguenza che la nullità dell'intero contratto debba sempre, nel concreto, rivelarsi devastante "per gli interessi del cliente e a volte sicuramente inutile per l'interesse generale". Non si dimentichi, infatti, che la caratteristica di relatività della nullità in parola, la circoscritta legittimazione a farla valere, rimette al consumatore il giudizio di convenienza sulla prosecuzione o no del rapporto costituito dal contratto privo degli elementi indicati nel riportato art. 124.

4. Il nocciolo duro delle norme di protezione ideate a tutela della parte debole del rapporto risiede, fondamentalmente, nelle statuizioni contemplate dall'art. 125 T.U..
La prima, non solo in ordine numerico, è quella che prevede l'estensione dell'art. 1525 cod. civ. anche a tutti i contratti di credito al consumo a fronte dei quali sia stato concesso un diritto reale di garanzia sul bene acquistato con il denaro ricevuto in prestito. Tale norma che statuiva l'inadempimento del compratore al mancato pagamento di una rata non inferiore all'ottava parte del prezzo, veniva modificata in pejus per effetto della ricorrente prassi in essere nei contratti di finanziamento di prevedere clausole risolutive espresse al mancato pagamento di una sola rata del prezzo, indipendentemente dal suo importo.
Il carattere imperativo della norma in rassegna, che importa la conseguente nullità di qualsiasi patto inteso a violarla, risolve ora questo risalente problema, ma ne fa nascere degli altri.

In particolare, se è chiaro nella dinamica della vendita con patto di riservato dominio che l'ottava parte del prezzo va riferita al bene oggetto della vendita a rate, ci si deve chiedere, con riferimento al diverso contratto di finanziamento, se l'ottava parte del prezzo abbia quale termine di riferimento, come in quel caso, il bene, ovvero l'importo finanziato corrisposto dal consumatore al venditore al netto dell'acconto, o il totale del finanziamento, comprensivo di quota capitale ed interessi. La dottrina maggioritaria ritiene quest'ultima soluzione come maggiormente appagante, anche perché il riferimento al prezzo del bene se ha un senso nei rapporti tra compratore e venditore, non pare averne alcuno nel diverso contratto di finanziamento.
Un altro problema riguarda l'operatività dell'art. 1525 del codice, che è ancorata alla sola fattispecie di finanziamento assistita dal diritto reale di garanzia sul bene oggetto della vendita. Tale limitazione determina una asimmetria di tutela giuridica in ipotesi di credito chirografario, per la quale il finanziatore potrebbe contare su una più ampia libertà di manovra onde far valere l'inadempimento del debitore ai fini della risoluzione del contratto, e così, in particolare, far rientrare in gioco gli artt. 1819 e 1820 cod. civ..
Disciplina ed effetti della risoluzione del contratto di credito al consumo per inadempimento del mutuatario non formano oggetto della disposizione dell'art. 125. Il legislatore interno non ha infatti provveduto all'attuazione del precetto della direttiva che rimetteva agli stati membri l'onere di regolare l'ipotesi che "quando il creditore rientra in possesso del bene, i conteggi tra le parti siano stabiliti in modo che tale recupero non comporti un ingiustificato arricchimento". Si pone pertanto il problema, fuori ovviamente dall'alternativa azione tesa ad ottenere l'adempimento coattivo dell'obbligazione da parte del finanziatore, di verificare se, ed in quali termini, possa farsi a tale riguardo applicazione analogica dell'art. 1526 del codice civile, con conseguente obbligo per il finanziatore di restituzione delle rate riscosse, verso "equo compenso per l'uso della cosa" oltre al risarcimento del danno e, per il consumatore, dell'intera somma presa a mutuo. L'effetto risolutivo del contratto di finanziamento dovrebbe poi estendersi anche al collegato contratto di compravendita, con obbligo per il consumatore di restituzione del bene e, per il venditore, di rimborso del prezzo anticipatogli dal mutuante ? finanziatore.
Nell'indubbia incertezza interpretativa, trovo preferibile limitare l'effetto risolutivo al solo contratto di finanziamento, con l'eventuale attivazione dell'azione di arricchimento senza causa ex art. 2041 cod. civ. nel caso di clausole contrattuali palesemente inique, che dovessero prevedere oltre ad azioni esecutive sul bene in garanzia, il diritto del finanziatore a trattenere le rate di mutuo già riscosse ed, in più, quello alla differenza tra il valore attuale del bene e l'ammontare complessivo del finanziamento.
La successiva norma contenuta nel comma secondo dell'art. 125 regola "le facoltà di adempiere in via anticipata o di recedere dal contratto senza penalità", conferendole "unicamente al consumatore senza possibilità di patto contrario" e demanda al C.I.C.R. la fissazione delle modalità tese ad attuare il diritto del consumatore ad un'equa riduzione del costo complessivo del credito nel caso di esercizio della prima delle facoltà sopra richiamate.
Il T.U. non disciplina, a fronte di tale prescrizione imperativa, l'effetto sostitutivo derivante dalla sua inosservanza ma, ancora una volta, dovrebbe ritenersi che sanzione coerente con lettera e ratio della norma non possa che essere quella della nullità delle clausole difformi, con conseguente sostituzione di diritto delle anzidette clausole con le indisponibili facoltà di adempimento anticipato e di recesso a favore del consumatore.
La deroga alla libera disponibilità dei contenuti dell'accordo emerge, in primo luogo, con riferimento alla disciplina ordinaria sul tempo dell'adempimento, attraverso la facoltà concessa al consumatore di anticipare le fisiologiche cadenze temporali dei contratti di finanziamento. E' infatti conferita al consumatore una possibilità alternativa normalmente preclusa se non a costo di una onerosa rinegoziazione dei termini dell'accordo: quella di estinguere anticipatamente il finanziamento con diritto "ad un'equa riduzione del costo complessivo del credito, secondo le modalità stabilite dal C.I.C.R.". La norma costituisce attuazione dell'omologa previsione contemplata dall'art. 8 della direttiva 87/102/CEE, ai sensi della quale "il consumatore deve avere la facoltà di adempiere in via anticipata agli obblighi che gli derivano dal contratto di credito" e "in conformità delle disposizioni degli stati membri, egli deve avere diritto a una equa riduzione del costo complessivo del credito". Per effetto del noto criterio di ultrattività disegnato dall'art. 161 T.U., il d.m. 8 luglio 1992 statuisce in proposito (art. 3) che "tale facoltà si esercita mediante versamento al creditore del capitale residuo, degli interessi ed altri oneri maturati fino a quel momento e, se previsto dal contratto, di un compenso comunque non superiore all'uno per cento del capitale residuo" (co. 1), e che, "qualora il contratto non dettagli l'importo del capitale residuo dopo ciascuna rata di rimborso, esso si determina quale somma del valore attuale di tutte le rate non ancora scadute alla data dell'adempimento anticipato, calcolata mediante la formula riportata in allegato…; il tasso d'interesse da utilizzare nel calcolo è quello vigente all'epoca dell'adempimento anticipato per la determinazione degli interessi a carico del consumatore" (co. 2). Omologa alla siffatta previsione sotto il diverso versante delle operazioni di credito fondiario è la norma dell'art. 40, co. 1, del T.U.B. come recentemente modificata dal'art. 6, co. 1, d. lgs. 4 agosto 1999, n. 342 che: a) riconosce ai debitori la facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il debito, corrispondendo alla banca esclusivamente un compenso onnicomprensivo contrattualmente stabilito per l'estinzione; b) prevede che i contratti indichino le modalità di calcolo del compenso; c) attribuisce al C.I.C.R. il potere di determinare i criteri per il suddetto calcolo, al solo fine di garantire la trasparenza delle condizioni. Affianca l'adempimento anticipato il diritto di recesso, assegnato al solo consumatore.
Delle altre disposizioni, mette conto fare menzione dell'ampiezza della prerogativa assegnata dal terzo comma al consumatore, titolare di una illimitata facoltà di opporre al cessionario del credito (non del contratto) "tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente, ivi compresa la compensazione, anche in deroga al disposto dell'art. 1248 cod. civ.".
La disposizione di diritto interno trae origine dall'art. 9 della direttiva 87/102/Cee, ove è prescritto che "se i diritti del creditore derivanti da un contratto di credito sono ceduti a un terzo, il consumatore deve avere la facoltà di far valere nei confronti del terzo le eccezioni ed i mezzi di difesa che poteva far valere nei confronti del creditore originario, ivi compreso il diritto alla compensazione ove questo sia ammesso nello Stato membro in questione". La primigenia attuazione delle norma comunitaria, portata dall'art. 21, co. 11, della l. n. 142 del 1992, specificava che "i diritti del creditore…possono essere ceduti ad un terzo solo previa comunicazione scritta del cedente al consumatore, da questa ricevuta con almeno quindici giorni di anticipo".
Da ultimo, il quarto comma dell'art. 125 prescrive, come già ricordato, che "nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l'esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore".
L'ultimo comma estende tale responsabilità anche al terzo al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal contratto di concessione di credito.

5. Dall'area di applicazione della direttiva n. 87/102/Cee, il legislatore comunitario escludeva espressamente il "credito concesso da un istituto di credito o da un istituto finanziario sotto forma di apertura di credito in conto corrente, diversi dai conti coperti da una carta di credito" (art. 2, co. 1, lett. e), tracciando così una netta linea di demarcazione tra operazioni geneticamente sussumibili in uno stesso tipo contrattuale a seconda che l'utilizzo delle disponibilità avvenisse o no tramite l'impiego di una carta di credito. Ciò risulta comprensibile in quanto, da un lato, il finanziamento cui accedano i cosiddetti "contratti di carta" è strutturalmente l'archetipo forse più comune ed immediato della fattispecie "credito al consumo"; dall'altro che il contratto di apertura di credito con regolamento delle operazioni in conto corrente è strutturalmente lontano dagli schemi usuali di credito al consumo. La soluzione è consistita nel dettare un regime speciale per le aperture di credito (nel linguaggio della direttiva, per le "concessioni di crediti sotto forma di anticipi") in conto corrente il cui utilizzo non avvenga tramite carta di credito che si colloca, diciamo, a metà tra disciplina del credito al consumo e disciplina ordinaria del contratto. In tal senso, l'art. 6, par. 1, della direttiva testualmente prevede che il consumatore, al momento della conclusione del contratto o prima, debba essere informato per iscritto: a) dell'eventuale massimale del credito; b) del tasso di interesse annuo e degli oneri applicabili al momento della conclusione del contratto e delle condizioni a cui essi potranno essere modificati; c) delle modalità secondo cui è ammessa la risoluzione (scilicet, recesso) del contratto. I successivi due paragrafi si peritano di precisare, da un lato, che nello svolgimento del rapporto il consumatore ha diritto ad essere informato "di qualsiasi modifica al tasso d'interesse annuo o delle spese applicabili" e, dall'altro, che "negli stati membri in cui è ammessa la pratica della tacita accettazione degli scoperti, lo stato deve garantire che il consumatore sia informato del tasso di interesse annuo e delle relative spese nonché di qualsiasi modifica di queste ultime, ove lo scoperto si prolunghi oltre tre mesi".
La primigenia attuazione della disciplina comunitaria, recata dai commi 5 e 6 dell'art. 21 l. n. 142/1992 , aveva posto non facili problemi interpretativi, soprattutto con riferimento alla natura alternativa ovvero additiva delle relative prescrizioni rispetto alla generale disciplina sul credito al consumo, non contemplando la normativa interna (a differenza di quella comunitaria) l'espressa esenzione dei finanziamenti concessi mediante contratti di apertura di credito in conto corrente non connessi all'uso di una carta dall'ambito di applicazione della ricordata disciplina generale.
L'art. 126 T.U. opportunamente risolve tali problematiche in via espressa, svincolando il regime speciale per le aperture di credito in conto corrente dalla trasparenza bancaria, ed in via interpretativa, risultando ora difficile potersi dubitare della autonomia di tale figura rispetto alla disciplina sul credito al consumo dalla quale, pur condividendo le finalità di protezione del sovvenuto, diverge notevolmente (per difetto) in punto di livelli di tutela offerti.
Sul piano dei contenuti, la norma prevede che, riguardo a contratti della specie, debbano essere indicati: a) il massimale e l'eventuale scadenza del credito; b) il tasso di interesse annuo ed il dettaglio analitico degli oneri applicabili dal momento della conclusione del contratto, nonché le condizioni alle quali è subordinato lo jus variandi durante l'esecuzione del contratto, con la precisazione che in tali elementi si sostanzia il costo effettivo del finanziamento e che pertanto nulla oltre a ciò è dovuto dal consumatore; c) le modalità di recesso dal contratto. Dal lato della banca, queste ultime ricalcheranno, con ogni probabilità, le più recenti previsioni contemplate dalle "condizioni generali" di cui al "protocollo d'intesa" tra A.B.I. ed Associazioni dei consumatori sottoscritto il 24 maggio 2000 , che, all'art. 3 Sez. II concernente gli affidamenti in conto corrente, prevedono che qualora il cliente rivesta la qualità di consumatore, la banca ha facoltà di recedere dall'apertura di credito a tempo indeterminato, di ridurla o di sospenderla con effetto immediato al ricorrere di un giustificato motivo, ovvero con un preavviso di un numero indeterminato di giorni (che, comunque, ex art. 1845, co. 3, cod. civ. non dovrebbe poter essere inferiore ai quindici giorni), mentre per l'apertura di credito a tempo determinato la banca ha facoltà di recedere, di ridurre o di sospendere con effetto immediato l'affidamento al ricorrere di una giusta causa.
La norma prevede che dette prescrizioni sono contenute nel contratto "a pena di nullità". Trattasi, senza ombra di dubbio, di nullità relativa, valendo anche per l'art. 126 il peculiare meccanismo indicato dalla successiva norma dell'art. 127. Trovando poi applicazione per rapporti della specie la disciplina della trasparenza bancaria (che, evidentemente, regola anche fattispecie e, soprattutto, termini, dello jus variandi dell'intermediario bancario o finanziario), convengo senza riserve con l'opinione che detta nullità sia anche parziale nei casi in cui la richiamata disciplina di trasparenza contempla (art. 117, co. 7) meccanismi di integrazione automatica di clausole contrattuali.
 

V


I NUOVI SCENARI: LA CORNICE.


1. Alla dinamica evolutiva dell'ordinamento formale, si giustappone - in guisa di fenomeno in progressiva espansione - l'area della autodisciplina tanto nelle fonti di produzione del diritto quanto in quella della composizione delle controversie tra consumatore ed impresa attraverso sistemi di giustizia cosiddetta stragiudiziale. Ed è, diversamente dal recente passato, fenomeno riconosciuto, incentivato, protetto dalle stesse fonti primarie, visto che i più recenti orientamenti del legislatore di Bruxelles in tema di protezione del consumatore sono esattamente nel senso di promuovere l'adozione di "organismi pubblici o privati preposti alla composizione stragiudiziale delle controversie". Banca e finanza costituiscono comparti all'interno dei quali l'autodisciplina, lo sviluppo di fonti negoziali del diritto registra consistenti e significative affermazioni, tali da giustificare il crescente interesse da parte della dottrina riguardo a tematiche, istituti, tecniche giuridiche ad essa sottesi.
L'abbandono di schemi comportamentali, economici, culturali domestici a favore di modelli sempre più marcatamente tesi a travalicare i confini nazionali in ragione del mutamento evocato dalla sintesi verbale sottesa al sostantivo globalizzazione rappresenta, sotto il versante oggettivo, la prima fondamentale causa della crisi del monopolio legislativo statuale. Strumento decisivo alla erosione del limite territoriale è l'evoluzione tecnologica, l'avvento della rete elettronica quale mezzo di conduzione e conclusione degli affari. Diversamente dalle leggi, la rete mondiale non conosce confini, non soggiace al limite della territorialità, prefigura e realizza un mercato planetario. Vengono così meno tutti gli elementi di fisicità sottesi alla tradizionale nozione di mercato finanziario, le relative discipline, forse la stessa nozione. Dipende anche (pur se non esclusivamente) da questo consapevole senso di impotenza per la progressiva erosione della sovranità la reazione consistente nel continuo, magmatico, impetuoso mutamento delle leggi quale risposta al mutamento della realtà economica. E questo inevitabilmente incide sul più rilevante indice di certezza del diritto o, quanto meno, di prevedibilità delle conseguenze giuridiche dei comportamenti. Incide sulla stabilità delle leggi.
La stabilità della legge è perciò un valore, una precondizione della sua effettività; l'osservanza diffusa e durevole delle regole di condotta preserva non solo gli usi, ma anche la legge dalla desuetudine. La delegificazione, cioè l'affidamento alla normazione secondaria del compito di provvedere all'ammodernamento della disciplina regolamentare al fine di dominare l'impetuoso cambiamento della sottostante realtà economica e fenomenica altrimenti difficilmente governabile, postula, presuppone che la norma primaria, la cornice sia caratterizzata da un elevato tasso di conoscibilità, accessibilità (donde la tecnica dei Testi unici normativi) ed appunto stabilità. E' tuttavia valore oggi smarrito, disatteso, obliterato. L'ansia delle leggi, il concorso, talora la sovrapposizione di fonti domestiche e sovranazionali, l'emergenza, il nuovismo caratterizzano settori dell'economia storicamente governati da leggi iperstabili. Determinano problemi di ineffettività, costi di regolamentazione e transattivi crescenti, delicate questioni sulla stessa conoscibilità delle regole; generano "vere e proprie carneficine degli ingegni, rendendo sempre più arduo e insicuro il lavoro dell'interprete".
Ulteriore fondamentale componente della crisi del positivismo giuridico è rappresentata dai tempi della giustizia civile.
Il problema, per sé complesso e di non facile soluzione, risulta ulteriormente aggravato nel passaggio dalla dimensione nazionale, domestica, a quella del mercato unico, ove il costo delle frontiere giudiziarie sconta le fisiologiche diversità dei "sistemi di giustizia" dei singoli paesi. Primi timidi passi nel senso della libera circolazione delle decisioni in materia civile e commerciale sono stati compiuti con il Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000. Resta tuttavia fermo che, con riferimento alle small claims, la via maestra consiste nella promozione di procedure non giurisdizionali, di giustizia stragiudiziale, come opportunamente segnala il "Piano d'azione sull'accesso dei consumatori alla giustizia e sulla risoluzione delle controversie in materia di consumo nell'ambito del mercato interno".
Significativa conferma dello sviluppo dell'ordinamento anche italiano lungo tale linea d'indirizzo è, da ultimo, fornita dall'art. 12, co. 4, della recente, importante legge delega per la riforma del diritto societario n. 366 del 3 ottobre 2001(in G.U. dell'8 ottobre 2001, n. 234), a norma del quale "il Governo è delegato a prevedere forme di conciliazione delle controversie civili in materia societaria anche dinanzi ad organismi istituiti da enti privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza e che siano iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia".

2. La direttiva 2000/31/Ce dell'8 giugno 2000 sul commercio elettronico e la proposta di direttiva sulla vendita a distanza di servizi finanziari introducono consistenti elementi di novità in ordine alla fattispecie ed alla disciplina del contratto concluso attraverso tecniche di comunicazione a distanza, intese - in senso lato - come comprensive di qualunque mezzo che possa impiegarsi per la stipula dell'atto d'autonomia senza la presenza fisica delle parti. Tale legislazione detta, per un verso, prescrizioni tese per quanto possibile ad evitare che l'attività economica svolta attraverso supporto elettronico venga assoggettata ad altrettante discipline nazionali quante sono quelle dei possibili destinatari, "situazione sentita dai protagonisti del mercato on line, i fornitori di servizi su rete, come catastrofica ai fini dello sviluppo del relativo commercio" e, per altro verso, a colmare la lacuna della precedente direttiva sui contratti a distanza, regolando ogni contratto avente ad oggetto servizi finanziari nell'accezione più ampia, cioè comprensiva di "qualunque servizio bancario, assicurativo, d'investimento e di pagamento" (art. 2, lett. c), ovviamente stipulato nell'ambito di un sistema che "impieghi esclusivamente tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la stipula del contratto stesso" (art. 2, lett. a).
Gli atti comunitari in rassegna dedicano ampio spazio all'informazione obbligatoria nell'ambito della ormai consolidata linea di policy che iscrive l'attuazione dell'art. 153 (ex 129 A) del Trattato nell'ambito degli obiettivi di politica economica dell'Unione per il tramite dell'affidamento alla disciplina generale del contratto e dei tipi contrattuali del nuovo compito di "provvedere alla trasmissione delle informazioni indispensabili per il corretto funzionamento del mercato concorrenziale" onde prevenire i noti fenomeni sottesi alla sintesi verbale rappresentata dall'espressione "fallimento del mercato".
La direttiva 2000/31 regola la materia in tre distinte disposizioni (rispettivamente, artt. 5, 6 e 10).
La prima, inserita nel Capo II relativo ai Principi, prevede doveri generali di informazione in capo alla "persona fisica o giuridica che presta un servizio della società dell'informazione" (prestatore) al fine di rendere tali informazioni "facilmente accessibili in modo permanente ai destinatari del servizio e alle competenti autorità" (art. 5). Sono, queste, informazioni di tipo soggettivo, relative all'identità di colui che presta il servizio, del luogo nel quale è stabilito, della sua qualificazione commerciale, del suo status professionale etc., salva l'eccezione contemplata dal secondo comma, viceversa relativa ad uno, anzi al più importante elemento segnaletico dell'offerta negoziale: il prezzo del servizio, che dovrà essere indicato "in modo chiaro ed inequivocabile".
La seconda detta condizioni minime delle comunicazioni commerciali tese a rendere chiaramente identificabili la natura commerciale della comunicazione, la persona fisica o giuridica per conto della quale viene effettuata, la tipologia di offerta se promozionale (ribassi, premi od omaggi), ovvero relativa a concorsi o giochi promozionali (art. 6).
Infine, l'art. 10, dichiaratamente rivolto all'informazione precontrattuale, detta regole minimali volte a fare in modo che "prima dell'inoltro dell'ordine", il destinatario del servizio sia almeno reso edotto sulle fasi del procedimento (per la direttiva "le varie fasi tecniche") preordinato alla conclusione del contratto; sulla eventuale archiviazione del contratto da parte del prestatore e sui mezzi per accedervi; sugli strumenti tecnici per la individuazione e la correzione di errori di inserimento dei dati prima dell'inoltro dell'ordine; sulle lingue a disposizione per concludere il contratto. E' inoltre prevista la indicazione da parte del prestatore degli eventuali codici di condotta cui aderisce e dei mezzi per accedervi in via elettronica. Soprattutto, è previsto l'obbligo di mettere a disposizione del destinatario "le clausole e le condizioni generali di contratto proposte....in un modo che gli permetta di memorizzarle e riprodurle".
Le prime due sono norme a soggetto indifferente, scontando una sfera di operatività di tipo oggettivo. Sono perciò anche inderogabili. La terza ha invece carattere bivalente. Dispositiva nei rapporti tra imprese (o, comunque, tra imprese e non consumatori), diviene rigidamente imperativa quando destinatario della prestazione sia il consumatore ("qualsiasi persona fisica che agisca a fini che non rientrano nella sua attività commerciale, imprenditoriale o professionale").
Sul piano della linea di intervento prescelta, mette conto ribadire che struttura e contenuti della prescrizione comunitaria sono tali da stimolare, sollecitare l'autoresponsabilità del consumatore, fornendogli la possibilità di conoscere le principali caratteristiche del contratto, e dunque di valutarne convenienza economica, qualità, principali suoi costi. In particolare, la previa messa a disposizione da parte dell'offerente delle clausole e condizioni generali di contratto è volta a rendere effettiva, nel contesto fenomenico in cui è calata, la conoscibilità delle stesse attraverso una diligenza "ordinaria" da parte del consumatore.
Sotto altri versanti, non può essere sottaciuta l'importanza del richiamo alla indicazione, nell'informativa precontrattuale, dei codici di condotta ai quali il prestatore del servizio aderisce. L'autodisciplina rappresenta infatti uno tra i più importanti postulati, anche culturali, di riferimento della più recente evoluzione del diritto privato europeo.
Tutte queste ed altre considerazioni appaiono evidentemente riferibili anche alla proposta di direttiva sulla vendita a distanza di servizi finanziari, che nella indicata linea di policy legislativa, detta prescrizioni specifiche relative a "tutti i servizi finanziari suscettibili di essere forniti a distanza" (10° considerando).
Delle due disposizioni relative all'informazione del consumatore, l'art. 3 si occupa del momento prenegoziale, mentre l'art. 3 bis ha ad oggetto la comunicazione delle condizioni contrattuali e della previa informazione.
L'art. 3 si preoccupa, attraverso l'estrema analiticità dell'elenco di informazioni obbligatorie indicate nel suo primo comma, di precludere - come prima si osservava - spazi di discrezionalità in sede di recepimento della disposizione negli ordinamenti domestici.
Volendo provare a ricondurre le sedici specifiche prescrizioni ivi contemplate ad insiemi concettualmente unitari, potremo far riferimento alle seguenti tre categorie di informazioni rilevanti nella fase prenegoziale: a) prezzo del contratto; b) qualità del contratto; c) strumenti di enforcement.
Informazione a sé stante è, infine, quella relativa all'identificazione del fornitore e suoi institori (lett. a).
In una prospettiva tutt'affatto diversa, il secondo comma introduce non ulteriori prescrizioni specifiche quanto piuttosto una regola di comportamento: quella di fare in modo che le indicate informazioni vengano fornite "in modo chiaro e comprensibile tramite qualunque mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza utilizzata, nel rispetto in particolare dei principi di lealtà in materia di transazioni commerciali e dei principi che disciplinano la protezione delle persone in condizione di incapacità giuridica secondo la loro legislazione nazionale, quali i minori".
Il successivo art. 3 bis è norma accessoria. Determina le sole modalità attraverso cui le ridette informazioni precontrattuali e tutte le condizioni contrattuali debbono essere portate a conoscenza del consumatore. Ciò che dovrà avvenire su supporto cartaceo o altro supporto durevole, scelto comunque di comune accordo tra le parti.
Quale la sanzione per l'inosservanza delle indicate prescrizioni?
Prescindendo dal diritto di recesso, la proposta di direttiva menziona espressamente, al successivo art. 4, co. 2, un altro rimedio: quello che il contratto possa essere rescisso allorché il consumatore sia stato incitato in modo sleale dal fornitore a stipulare l'atto negoziale.
Il riferimento nella direttiva alla salvezza del diritto del consumatore "di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito in base alla normativa nazionale" (art. 4, co. 2, cit.) potrebbe, in prospettiva, schiudere un'altra possibilità: quella al riequilibrio non per il tramite dell'invalidazione del contratto. Nel codice è invero presente la importante figura del dolo incidente, che potrebbe essere esteso anche alla violazione degli obblighi contemplati negli atti comunitari in discorso a fini di una più efficace ed effettiva tutela di tale particolare categoria di consumatori.
Questa, per grandi linee, la disciplina comunitaria degli obblighi informativi nella vendita a distanza di servizi finanziari, la cui ricordata ampia accezione consente senz'altro di ricomprendere i contratti di credito al consumo.
Diversa problematica è quella relativa ai rapporti tra emananda attuazione delle regole di recepimento dei ricordati atti dell'Unione e disciplina domestica in materia di promozione e collocamento a distanza di servizi d'investimento e strumenti finanziari.
Promozione e collocamento a distanza dei servizi d'investimento e degli strumenti finanziari hanno loro fonte legale rispettivamente nell'art. 32 del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo Unico delle disposizioni sull'intermediazione finanziaria (d'ora innanzi: TUF) e nella conseguente normativa secondaria della Consob, contenuta nel Libro IV (artt. 71 - 77) del regolamento Consob n. 11522 del 1° luglio 1998. La norma di legge, nella sostanza omologa al previgente art. 24 del decreto - ponte attuativo della direttiva comunitaria sui servizi d'investimento (d. lgs. n. 415/1996 c.d. Eurosim), si limita a definire l'oggetto della disciplina ed il suo perimetro applicativo, rimettendo integralmente all'Autorità di settore sia nell'an che nel quomodo la scelta dei modi e delle forme attraverso cui regolare il fenomeno.
Quanto all'oggetto, l'art. 33 definisce le tecniche di comunicazione a distanza come quelle "tecniche di contatto con la clientela, diverse dalla pubblicità, che non comportano la presenza fisica e simultanea del cliente e del soggetto offerente o di un suo incaricato".
In quanto species del collocamento, l'offerta a distanza soggiace naturalmente alla riserva d'attività nella prestazione dei servizi d'investimento statuita dall'art. 18, co. 1, TUF. E' dunque espletabile dai "soggetti abilitati" alla prestazione di tale servizio d'investimento [cfr. art. 1, co. 1, lett. r) TUF], nonché dagli agenti di cambio di cui all'art. 200, co. 7 TUF. La specifica autorizzazione allo svolgimento del servizio di cui all'art. 1, co. 5, lett c) TUF non è necessaria se i "soggetti abilitati" offrono propri servizi d'investimento; società di gestione del risparmio e Sicav possono svolgere l'offerta limitatamente a quote ed azioni di Organismi di investimento collettivo del risparmio (art. 30, co. 3 e 4 TUF). Circa l'oggetto dell'offerta, è appena il caso di rammentare quanto diffusamente ritenuto in dottrina circa la discrasia tra rubrica e contenuto della norma ("strumenti finanziari" vs. "prodotti finanziari") in ordine alla prevalenza di questo su quella , con la testuale esclusione dalla portata applicativa della norma dei prodotti finanziari indicati nell'art. 100, co. 1, lett. f) TUF. Decrittata, la disposizione si applica ad ogni promozione e collocamento a distanza di strumenti finanziari quali definiti (rectius, classificati) dall'art. 1, co. 2 TUF, a cui si aggiungono gli investimenti di natura finanziaria in ogni altra forma (art. 1, co. 1, lett. u), purché non si tratti di prodotti finanziari, diversi da azioni o che permettono di acquisire o sottoscrivere azioni, emessi da banche o da imprese assicurative.
Sottratta alla disciplina in rassegna è altresì l'attività pubblicitaria a distanza, autonomamente regolata nel successivo art. 101.
Definita la fattispecie di riferimento, la disciplina dell'attività risiede fondamentalmente: 1) nella estensione delle disposizioni contenute nel precedente Libro III del richiamato regolamento; 2) nell'obbligo di fornire agli investitori informazioni e chiarimenti "in modo chiaro e comprensibile, con modalità adeguate alle caratteristiche della tecnica di comunicazione a distanza impiegata"; 3) nella possibilità di consegnare agli investitori i documenti dovuti anche mediante l'utilizzo di tecniche di comunicazione a distanza, "purché le caratteristiche di queste ultime siano con ciò compatibili e consentano al destinatario dei documenti di acquisirne la disponibilità su supporto duraturo".
Già dalla mera elencazione, traspare l'importanza del rinvio alle norme sulla prestazione dei servizi d'investimento (al "precedente Libro III"), sia sotto il versante informativo, di consenso informato dell'investitore, sia sotto quello della standardizzazione e comparabilità delle regole di condotta degli operatori finanziari.
In tal guisa, risultano tra l'altro applicabili all'offerta a distanza le regole generali di comportamento definite nell'art. 26; quelle sui conflitti d'interesse (art. 27); quelle sull'informazione precontrattuale (art. 28); quelle sui requisiti di forma dell'atto d'autonomia (art. 30), etc..
Mette conto richiamare il diverso perimetro applicativo esistente tra norme comunitarie (applicabili, come si è visto, a "qualunque servizio bancario, assicurativo, d'investimento e di pagamento") e disciplina domestica sulla promozione ed il collocamento a distanza dei servizi d'investimento, alla cui pur ampia accezione non sono certo riconducibili i servizi bancari e quelli assicurativi. Manca, in particolare, nel settore bancario una norma analoga al più volte menzionato art. 32 del T.U.F., atteso che le discipline della trasparenza e del credito al consumo risultano applicabili ai soli contratti tra presenti o anche a distanza, ma conclusi nelle tradizionali forme contemplate dal codice civile.
Così come manca, relativamente a questi contratti, una disciplina dello ius poenitendi analoga a quella contemplata dall'art. 30 del T.U.F., applicabile al (solo) collocamento a distanza di prodotti finanziari.
La cogenza della norma, la sua inderogabilità, non sono prive di costi per l'investitore. E', questo, il lato oscuro della medaglia.
Quando applicato a contratti in strumenti finanziari, cioè a negozi fisiologicamente, strutturalmente speculativi, lo jus poenitendi finisce, in realtà, per allocare automaticamente in capo all'investitore l'alea dell'oscillazione del prezzo del titolo nel periodo di sospensione. Rende così, a fronte del beneficio dell'eventuale ripensamento, economicamente e razionalmente non dominabile la decisione di addivenire alla conclusione del contratto al tempo t con un prezzo dei valori mobiliari acquistati determinabile solo allo spirare del cennato periodo di sospensione, cioè al tempo t+7. Ex ante la decisione è al buio: sette giorni nei mercati borsistici sono infatti un'eternità. Non è perciò certo che il trade - off tra queste due variabili intimamente conflittuali sia, alla fine, favorevole al consumatore.
Anche per questa ragione, perché altro è l'acquisto di un bene di consumo, altro l'acquisto di strumenti finanziari, è forse il caso di ripensare criticamente l'impiego generalizzato dell'istituto, abbandonare l'idea (o il feticcio?) della sua univocità quale strumento di tutela del consumatore con riferimento a tutti i contratti; passare dunque "dal contratto ai contratti". Non a caso la proposta di direttiva sulla vendita a distanza di servizi finanziari esclude o, comunque, limita fortemente l'applicazione del recesso con riferimento ad una serie di servizi [fra cui quelli relativi al mercato monetario, i titoli negoziabili, i fondi comuni d'investimento ed altri sistemi di investimento collettivo, i contratti a termine, le opzioni, gli strumenti su tassi di cambio e d'interesse il cui prezzo dipende dalle fluttuazioni del mercato finanziario e che il gestore non è in grado di controllare ], per i quali "l'esercizio del diritto di recesso potrebbe comportare un rischio di speculazione" (così nella "Relazione").
La Consob ha quindi previsto che i soggetti abilitati possano far ricorso al diritto di recesso senza doversi servire del promotore finanziario. La stessa autorità è successivamente intervenuta sul punto per precisare che "le regole di comportamento dettate...per la prestazione di servizi d'investimento non vengono meno se l'impresa si avvale di Internet ……. per lo svolgimento dell'attività di intermediazione" ma che "tali regole richiedono modalità di adempimento specifiche in ragione della particolare natura tecnica del mezzo di contatto con la clientela utilizzato". Nel dettaglio vengono, con la cennata comunicazione, fornite indicazioni specifiche sull'informativa da rendere e da acquisire ai (dai) clienti; sulla conclusione del contratto; sulla natura dei rischi delle operazioni; sui conflitti d'interesse etc..
E' quindi necessario fare in modo che lo sviluppo del trading on line di prodotti bancari e finanziari, della sua disciplina, si accompagni ad un ripensamento in chiave comparativa e sistematica della disciplina che regola i contratti conclusi con gli strumenti tradizionali in maniera da rendere tali due insiemi comparabili in termini di costi complessivi di applicazione delle norme.

3. Sotto il versante del diritto interno, la recente delibera del Comitato del credito emanata in data ….. introduce, a livello di normazione secondaria, importanti modifiche all'assetto disciplinare previgente soprattutto, per quanto specificamente attiene al credito al consumo, in punto di obblighi di pubblicità preventiva. Ma, prima e di più, essa finalmente consente, in parte qua, dopo circa un decennio, la cessazione della efficacia del decreto del Ministro del tesoro del 24 aprile 1992 e, soprattutto, l'abrogazione delle corrispondenti norme della l. n. 154/1992 sulla trasparenza bancaria, preservate dal noto meccanismo di ultrattività disegnato dall'art. 161, co. 2, del Testo unico bancario.
La disciplina secondaria contempla obblighi pubblicitari con effetti sostanzialmente equivalenti nelle negoziazioni tra presenti come nelle negoziazioni a distanza (sia on line che off line), colmando, da un lato, la lacuna esistente tra contratti bancari e contratti di intermediazione mobiliare in punto di offerta fuori sede , dall'altro anticipando parte delle prescrizioni contemplate nei ridetti atti comunitari in tema di commercio e elettronico e di vendita a distanza di servizi finanziari.
La delibera del Comitato sconta, sul versante dei destinatari, un ambito di applicazione corrispondente a quello indicato dall'art. 115 T.U.; del pari, sotto il versante dei beneficiari, l'ampiezza della disciplina di trasparenza bancaria, che è a soggetto indifferente, consente di ricomprendere nel perimetro applicativo della norma secondaria ogni controparte della banca o dell'intermediario abilitato. Diverge dalla universale portata oggettiva delle discipline di trasparenza per essere applicabile non già ad ogni operazione o servizio bancario o finanziario, ma alle sole operazioni e servizi indicati nell'allegato , con possibilità per la Banca d'Italia di stabilire "che altre operazioni e servizi siano riconducilibili alle tipologie indicate nell'allegato medesimo" in ragione della "evoluzione dell'operatività degli intermediari e dei mercati" (art. 3).
Detto questo, i più rilevanti profili di novità consistono, sul piano dei contenuti, nella sostituzione degli "avvisi sintetici" con l'avviso denominato "principali norme di trasparenza" che, ex art. 4, contiene l'indicazione "dei diritti e degli strumenti di tutela previsti ai sensi del titolo VI del testo unico bancario". Oltre a dover essere esposto nei locali aperti al pubblico, il nuovo avviso dovrà essere consegnato al cliente prima della conclusione del contratto nel caso di offerta fuori sede (art. 6), ovvero posto a disposizione della clientela tramite tecniche di comunicazione a distanza nel caso di attività negoziale on line.
Quanto invece ai fogli informativi, alla pregressa disciplina che, nel delinearne solo sommariamente struttura e contenuti, di fatto consentiva gradi di discrezionalità nella loro enucleazione da parte delle banche inversamente proporzionali alla comparabilità dell'offerta, si sostituisce ora una regolamentazione a maglie strette. Gli intermediari sono infatti tenuti ad indicare nei "fogli": 1) informazioni relative all'offerente (dati identificativi, gruppo di appartenenza etc.); 2) informazioni sulle condizioni economiche dell'operazione o del servizio (spese, oneri, commissioni, tasso d'interesse e relative modalità di calcolo, capitalizzazione etc.); 3) informazioni su clausole non strettamente economiche che regolano il rapporto negoziale (esoneri di responsabilità, termini e condizioni per l'esercizio del diritto di recesso e per l'esercizio di facoltà o l'adempimento di obblighi etc.); 4) principali rischi tipici dell'operazione o del servizio (di cambio, di interesse, di controparte e relativa copertura o no da parte di sistemi di garanzia). Sotto questo versante, il primo comma dell'art. 5 attua in maniera piena l'art. 116 del Testo unico attraverso una lettura della norma conforme al suo spirito che, facendo leva anche sulla interrelazione tra primo e terzo comma, non è certo nel senso di limitare l'informazione dovuta alla clientela alle sole condizioni strettamente economiche dell'operazione, risultando di elementare percezione che ogni clausola contrattuale non può non incidere sull'assetto di interessi la cui composizione è data da uno strumento (il contratto) teso nella sua interezza proprio a regolare rapporti giuridici patrimoniali economicamente rilevanti (art. 1321 cod. civ.).
Completa l'informazione preventiva al cliente la importante introduzione del diritto ad ottenere, prima della conclusione del contratto, copia dello stesso "per una ponderata valutazione del contenuto" (art. 8). Ovviamente, la consegna della copia non vincola l'intermediario (la norma reca la locuzione "parti", ma è del tutto evidente che l'impegno non può riguardare l'oblato ma solo il proponente) alla conclusione del contratto, traducendosi altrimenti in una proposta unilaterale irrevocabile ex art. 1329 cod. civ..
I soddisfacenti risultati conseguiti, nell'ambito della disciplina sul credito al consumo, con la indicazione del TAEG, hanno indotto il C.I.C.R. a prevedere, nella nuova disciplina secondaria, anche per la trasparenza delle operazioni bancarie e finanziarie, l'introduzione di un Indicatore Sintetico di Costo (ISC) comprensivo di tutti gli interessi ed oneri che concorrono a determinare il costo effettivo dell'operazione, e così ad agevolare la valutazione della convenienza dell'operazione anche in chiave comparativa (art. 9). La circostanza che, con riferimento alle diverse tipologie contrattuali, risulta difficile formulare un indicatore unitario ed onnicomprensivo, in ipotesi idoneo ad assolvere ad omogenee funzioni conoscitive nella divaricata ed ampia fenomenologia del mondo degli affari, ha poi indotto il Comitato a circoscrivere l'impiego di siffatto indice di costo alle operazioni e servizi che la Banca d'Italia provvederà ad individuare. Alla stessa Banca d'Italia è altresì rimesso il compito di determinare la formulazione tecnica del ridetto indicatore.
Conclude la Sezione della delibera intitolata alla pubblicità ed ai contratti una norma che mitiga il rigore sotteso al requisito della forma scritta (art. 117 T.U.B) statuito dalla legge, prevedendo che per operazioni e servizi esecutivi di contratti redatti per iscritto, ovvero per contratti occasionali o di importo contenuto, la Banca d'Italia possa prevedere disposizioni in deroga all'anzidetto requisito formale (art. 10).

4. Con il Codice di comportamento adottato nel 1996 su iniziativa dell'Associazione Bancaria Italiana (d'ora innanzi: ABI), il settore bancario e finanziario si è dotato di un importante strumento teso a migliorare, in maniera uniforme, i rapporti con la clientela.
Tale iniziativa è dichiaratamente mutuataria di similari esperienze diffuse all'estero, "dove tra gli esempi più rilevanti si registrano la 'Charte des Services Bancaires de base', messa a punto in Francia", o le "regole del 'Good Banking' inglesi", atteso che l'obiettivo è quello di adeguarsi a standard internazionali ritenuti imprescindibili per lo sviluppo "di un 'sistema qualità teso a garantire che lo svolgersi della vita aziendale si ispiri a criteri atti ad assicurare la soddisfazione del cliente" e così, soprattutto, ad assecondare crescenti livelli di domanda rivolti all'impresa domestica.
Delle cinque parti di cui si compone (Principi generali; Normativa di riferimento; Relazioni con il cliente; Attività dell'aderente; Reclamo del cliente), è quella rubricata alle "Relazioni con il cliente" a sollecitare maggiori riflessioni da parte dell'interprete sia riguardo alla natura delle prescrizioni ivi contemplate, sia riguardo ai contenuti.
Quanto alla prima, mette invero conto osservare che, diversamente dalle altre parti del Codice (recanti sintesi esplicative della normativa di riferimento, rinvii ad altre discipline, integrazioni di pregresse disposizioni), questa si compone prevalentemente di regole deontologiche tese alla promozione di una vera e propria etica professionale da parte dei consociati.
Volendo ricondurre le esposte regole di comportamento a principi generali paradigmatici degli obblighi (o, se si preferisce, degli impegni) posti in capo all'(assunti dall') impresa, è facile osservare la loro sussunzione in norme di trasparenza, diligenza e correttezza.
Il Codice di comportamento del settore bancario e finanziario individua, come si è visto, gli standard deontologici ritenuti idonei a migliorare le relazioni tra intermediario e cliente, ma nulla dice (né lo potrebbe) in ordine: 1) alla adeguatezza, alla capacità di quegli standard di soddisfare concreti bisogni di protezione della clientela e così di riflettersi positivamente sulla qualità dei rapporti; 2) alla concreta osservanza delle regole autodisciplinari da parte delle banche e degli altri intermediari finanziari iscritti all'ABI o appartenenti ad un gruppo bancario iscritto all'ABI che lo abbiano sottoscritto(c.d. "aderenti").
Il secondo è, all'evidenza, un problema applicativo, di effettività della norma deontologica, di enforcement, di sanzioni per l'inosservanza e di organismi deputati alla loro inflizione, che verrà esaminato più avanti, nella parte concernente l'Ombudsman bancario.
Il primo è invece problema sostanziale che evoca un giudizio valutativo di consistente momento, se è vero che "i codici deontologici si debbono esaminare nella sostanza, oltre che nella forma, nelle loro finalità espresse e in quelle inespresse, nella loro efficacia concreta, nella loro conformità ai valori che sorreggono la comunità, piuttosto che non nella difesa di interessi di categoria o corporativi". E' dunque problema che, nella immanente caratterizzazione relazionale del giudizio, sconta la previa definizione dell'unità di misura alla quale rapportare la valutazione di adeguatezza o no dei richiamati standard a fini di miglioramento qualitativo dei rapporti tra intermediario e cliente.

5. L'accordo contenuto nella Circolare dell'ABI del 1° febbraio 1993 (modificata dalla successiva Circolare del 16 novembre 1998 onde tener conto, tra l'altro, dei principi contenuti nella richiamata Raccomandazione CE del 30 marzo '98) prefigura l'Ombudsman bancario come organo di secondo grado, costituendo il previo ricorso all'Ufficio reclami delle banche, pure istituito dal ridetto accordo, condizione di procedibilità dell'azione presso l'Ombudsman [cfr. art. 7, lett. c) del Regolamento riprodotto nella Circolare]. Esso, aperto a tutte le banche indipendentemente dall'associazione all'ABI, registra un'adesione pressoché totale da parte del sistema creditizio.
L'accordo è stato ulteriormente rivisitato con Circolare ABI, Serie legale, n. 40 del 15 novembre 2001. Le modifiche apportate, che entrano in vigore a far tempo dal 1° gennaio 2002, sono volte a:
a) determinare un ampliamento della platea dei possibili aderenti, essendosi stabilito che possono ora farne parte: I) le banche e gli intermediari finanziari che svolgono una o più delle attività ammesse al mutuo riconoscimento facenti parte di gruppi bancari; II) le banche italiane che non fanno parte di gruppi bancari e le succursali di banche dell'Unione europea e di Paesi terzi stabilite in Italia; III) le banche dell'Unione europea operanti in Italia senza succursali; IV) gli intermediari finanziari sottoposti a vigilanza prudenziale, iscritti nell'elenco speciale di cui all'art. 107 T.U. o negli albi delle Sim e delle Sgr, nonché gli intermediari finanziari iscritti nell'elenco generale dell'art. 106 T.U. e partecipati direttamente da banche in misura cumulativamente non inferiore al 51 per cento. L'adesione della capogruppo all'accordo produce automaticamente l'adesione da parte di tutte le componenti bancarie e finanziarie del gruppo;
b) raddoppiare il limite della competenza per valore, esprimendolo in Euro e fissandolo in 10.000 Euro;
c) prevedere termini entro i quali il cliente può ricorrere all'Ufficio reclami (due anni dall'operazione contestata) ed il consumatore all'Ombudsman (un anno decorrente dalla mancata risposta, dal rigetto, dalla mancata esecuzione della decisione dell'Ufficio reclami, fermi gli altri presupposti stabiliti dall'art. 7, di seguito esaminati);
d) precisare che l'Ombudsman produce mensilmente un rapporto statistico sull'attività svolta e, al termine di ogni anno solare, una relazione sulla stessa.
Nella disamina delle peculiarità dell'organismo in discorso, viene pregiudizialmente all'attenzione la definizione della sua natura, essendosi da taluno enfatizzata la funzione "di tipo pseudo arbitrale, che oggi distingue praticamente tutti gli Ombudsmen privati".
In realtà, pare che l'Ombudsman bancario italiano poco abbia in comune con organismi di conciliazione ed arbitrato.
Intanto per la sua stessa composizione, facendone parte, oltre al Presidente, nominato dal Governatore della Banca d'Italia, due membri di nomina ABI ed altri due membri, rispettivamente in rappresentanza del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti. L'assenza di rappresentanti dei fruitori dei servizi bancari e finanziari, cioè di esponenti del ceto che l'organismo è deputato a proteggere, evidenzia nettamente la diversità di questo soggetto da organismi di tipo conciliativo, composti, com'è noto, da rappresentanti delle parti in conflitto. Mette conto, in proposito, piuttosto rammentare che in linea con la Raccomandazione comunitaria la quale ritiene che l'indipendenza dell'organo sia, tra l'altro, garantita dalla circostanza che i membri designati godano di mandato irrevocabile e di durata sufficientemente ampia, le modifiche alla Circolare hanno eliminato il previgente limite di una sola conferma all'incarico triennale ed introdotto la norma che prevede che nessuno dei componenti debba aver svolto, nel triennio precedente la nomina, attività di lavoro subordinato o autonomo avente caratteristica di collaborazione coordinata e continuativa presso l'ABI e/o presso associati alla stessa.
Inoltre perché, tra le condizioni di procedibilità, v'è l'espressa menzione che le controversie per le quali viene investito l'Ombudsman "non siano state già portate all'esame dell'Autorità giudiziaria o di un collegio arbitrale" (art. 7, lett. a).
Infine perché mentre nell'arbitrato "le parti si affidano concordemente al giudizio di un terzo privato e tale affidamento è fatto a pari condizioni, nel senso che entrambe rinunciano a far valere le loro ragioni in un giudizio ordinario, nel regolamento è invece stabilito che la decisione dell'Ombudsman è vincolante per la banca (art. 10), mentre il cliente, oltre a non essere privato, pure in pendenza del ricorso all'Ombudsman, del diritto di investire della controversia l'Autorità giudiziaria ovvero, quando sia previsto, il collegio arbitrale (art. 14), potrà sempre, anche dopo la decisione dell'Ombudsman, se non si ritenga soddisfatto, adire quelle sedi di giudizio per far valere le proprie ragioni".
Ciò conferma che "l'Autorità introdotta dall'ABI, priva della natura di organo giudiziario, opera in veste di garante della regolarità dell'attività bancaria".
Diversamente dall'adizione dell'Ufficio reclami, l'accesso all'Ombudsman sconta una serie di limitazioni, tanto oggettive quanto soggettive.
Oltre alla circostanza che delle questioni non sia già stata investita l'Autorità giudiziaria, devono concorrere, sotto il primo versante, le ulteriori condizioni che l'oggetto della controversia sia quantificabile in valori non eccedenti dieci milioni di lire (come ricordato, dal 1° gennaio 2002: € 10.000) e che, a seguito del ricorso all'Ufficio reclami: i) la banca non abbia fornito risposta nel previsto termine di sessanta giorni (novanta per controversie inerenti a servizi d'investimento), ovvero ii) la risposta non sia stata, in tutto o in parte, favorevole al cliente, ovvero iii) all'accoglimento del reclamo non sia stata data attuazione, nei cennati termini, da parte della banca o dell'intermediario (art. 7, lett. c).
Sul piano soggettivo, all'Ombudsman possono rivolgersi esclusivamente i soggetti che rivestono la qualifica di consumatori ai sensi dell'art. 121 del Testo unico bancario per controversie relative a rapporti aventi ad oggetto operazioni o servizi, da essi intrattenuti con le banche o gli intermediari, per finalità estranee all'attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta (art. 7 cit.).
Il procedimento innanzi all'organismo collegiale è estremamente semplificato. Ferma la legittimazione del cliente, che non ha bisogno di alcuna rappresentanza processuale (ancorché il ricorso a consulenti legali si rivela talora indispensabile in relazione alla complessità giuridica dei contratti), l'Ombudsman è investito della questione tramite semplice richiesta scritta. Di ciò provvede ad informare, sempre per iscritto, la banca o l'intermediario interessati.
I poteri istruttori, contemplati dall'art. 9 del Regolamento, prevedono che l'Ombudsman possa, per il tramite della propria segreteria tecnica, richiedere ulteriori dati e notizie tanto al cliente, quanto al responsabile dell'Ufficio reclami della banca o dell'intermediario interessati, fissando termini perentori. Concordo con l'opinione secondo cui, qualora l'Ombudsman, dall'esame degli atti, desuma il coinvolgimento nella vicenda di una banca o di un intermediario diversi da quelli coinvolti, dovrà sospendere il giudizio ed inviare gli atti all'Ufficio reclami della seconda banca (o del secondo intermediario), stante il richiamato requisito che vuole l'Ombudsman competente a conoscere questioni già esaminate dall'Ufficio reclami competente.
Il giudizio va reso entro novanta giorni dal ricevimento, da parte dell'Ombudsman, della richiesta. La decisione motivata è comunicata alle parti tramite lettera raccomandata (art. 10).
Unica, ma significativa, sanzione contemplata per il caso di inosservanza da parte della banca (o dell'intermediario) alla decisione consiste, decorso il termine assegnato per provvedere, nella pubblicità dell'inadempienza a mezzo stampa a spese del soccombente.
Le "Relazioni semestrali" dell'Ombudsman, contemplate dall'art. 6, u.c., del Regolamento (ora, come ricordato, rapporto mensile e relazione annuale) consentono di verificare nel concreto lo stato di operatività dell'organismo in discorso. A far tempo dall'anno 2000, una preziosa relazione annuale affianca, con un massimario delle più importanti decisioni emanate nell'anno di riferimento, il documento semestrale. Detta relazione contiene dati di estremo rilievo sia in valore assoluto che con riferimento alla comparazione, ivi effettuata, a quelli relativi a periodi precedenti.
Ora, a fronte di 941 reclami pervenuti all'Ombudsman nell'anno 1994, il dato relativo al 2000 fa registrare n. 3.030 istanze; l'incremento è dunque di 2.089 reclami, pari - in termini percentuali - a circa il 222 per cento in più rispetto a quella primigenia esperienza applicativa. Dei reclami definiti, pari a 2.769, sono 133 le decisioni di accoglimento del ricorso (nel 1994, erano invece 22 a fronte di 467 reclami definiti), mentre le decisioni favorevoli alla banca si ragguagliano in n. 942 (1994: n. 117). La percentuale di decisioni di accoglimento in senso stretto si attesta, ora come allora, su valori modesti, inferiori al 10 per cento dei reclami esaminati.
Sarebbe tuttavia semplicistico far discendere da questo unico dato giudizi sulla funzionalità dell'Ombudsman, che invece non possono prescindere dal più rilevante numero di decisioni di accertamento di cessazione della materia del contendere per intervenuto componimento della vertenza con accoglimento, parziale o totale, delle richieste del cliente. Esse sono, nel 2000, pari a n. 556 decisioni (1994: n. 98), con percentuali che superano il 20 per cento dei reclami definiti. Ciò trova invero spiegazione nel fatto che, a fronte dell'intervento dell'Ombudsman, la banca spesso addiviene a ripensamenti sulle determinazioni assunte onde evitare la pubblicità negativa che inevitabilmente si rifletterebbe sulla sua reputazione per effetto di una formale decisione di accoglimento del reclamo da parte del giudice dell'autodisciplina.
Si mantiene, piuttosto, elevato il numero dei reclami dichiarati dall'Ombudsman inammissibili, o conclusi con decisione di non luogo a provvedere. Nell'arco del 2000 essi sono stati infatti pari a 814 (nel 1994: 358), pari cioè a circa il 30 per cento dell'intero ammontare delle decisioni rese (come detto, n. 2.769, ma comprensive di n. 324 ricorsi archiviati per inattività sopravvenuta). Il dato comprende fattispecie assolutamente variegate (dall'assenza dello status di consumatore alla pendenza di una causa civile; dal superamento della competenza per valore alla carenza di legittimazione passiva del convenuto etc.) e tuttavia tra loro unite dal comune denominatore della conoscenza vaga ed imprecisa del funzionamento dell'Ombudsman bancario e del suo corretto utilizzo. Donde da un lato una crescente domanda di giustizia stragiudiziale; dall'altro una generica, disattenta, confusa richiesta di giustizia senza regole, quasi che questo tipo di contenzioso possa prescindere da norme che ne disciplinano legittimazione, competenze, procedimento.
Anche se, come segnalato nella relazione del 2000, è forse ravvisabile una prima timida inversione di tendenza sul punto, essendo nel corso dell'anno diminuite, rispetto al 1999, di quasi il 12 per cento le dichiarazioni di inammissibilità o di non luogo a provvedere (n. 814 rispetto a 923), permane l'impressione che non risultino adeguatamente veicolate presso l'opinione pubblica, presso la società civile, esistenza e caratteristiche salienti dell'organismo in discorso. Certo la denominazione prescelta quale formula riassuntiva delle attribuzioni commesse non aiuta, evocando (nella etimologia svedese del termine) fenomeni organizzatori di tutela contro possibili abusi del monarca piuttosto che organismi chiamati a risolvere problemi di microconflittualità. Ma non aiuta neanche la mancata diffusione presso il pubblico dei risparmiatori di testi accurati, densi di utili riferimenti statistici e casistici quali le Relazioni, che invece ben potrebbero rendere edotta l'opinione pubblica delle competenze e degli orientamenti dell'Ombudsman non solo in punto di applicazione del diritto in termini formali, ma soprattutto delle valutazioni equitative adottate, degli interventi propositivi, degli stimoli al miglioramento.
E', sotto questo profilo, da salutare perciò con estremo favore la pubblicazione nella collana Diritto e Fisco dell'A.B.I. (Bancaria, Roma, 2001) della attività dell'Ombudsman nel corso del 2000, con il ridetto massimario delle decisioni di maggiore interesse.

6. Libertà di intraprendere, concorrere e contrarre; di trascendere, con il commercio telematico, la fisicità del territorio, il limite spaziale segnato dal confine e quello temporale della ordinaria negoziazione tra presenti; di godere di economie di scala e di effetti di rete generano, insieme alla competizione planetaria, la irreversibile frantumazione delle fonti del diritto.
Ai tradizionali modi di produzione della legge in senso formale si affiancano meccanismi che partono dalla società civile, capaci di imporre regole altrettanto vincolanti di quelle riferibili alla fonte parlamentare.
Da ciò il concorso di fonti eterogenee nel prevedere, determinare, applicare la regola tesa a governare i contrapposti interessi. Alla norma primaria si affianca la disciplina regolamentare dell'autorità di settore; ad entrambe la norma sovranazionale prodotta dal diritto dell'Unione; a queste le fonti negoziali generate dall'autodisciplina; dalla prassi economica che la dottrina assimila a remote esperienze classificabili in guisa di lex mercatoria; dalla codificazione e diffusione di regole uniformi per i contratti commerciali internazionali (i noti "Principi Unidroit"), poste a disposizione degli operatori sia per la conclusione del contratto che per la definizione di controversie future. A latere rispetto a queste nuove ed importanti dinamiche sociali ed ordinamentali si sviluppa l'ambizioso tentativo di promuovere l'unificazione legislativa del diritto privato attraverso la codificazione dei Principles of european contract law, principalmente da parte della Commissione per la redazione di un progetto di codice civile europeo coordinata dal giurista danese Ole Lando, nonché dall'Accademia dei Giusprivatisti Europei di Pavia
Funzionalmente destinati nella loro applicazione agli Stati membri dell'Unione, i "Principi" consistono in norme prevalentemente dispositive che possono essere adottate dalle parti quale legge applicabile al contratto ed utilizzate dagli arbitri nell'applicazione della lex mercatoria e dei principi comuni ai Paesi occidentali.
Formalmente e strutturalmente diverse, queste fonti del diritto determinano il passaggio da un ordinamento giuridico unitario ad un ordinamento pluralistico e sollecitano esigenze di coordinamento più che di vera e propria definizione della gerarchia di quelle che regolano ciascuna sfera di attività. Possono tuttavia essere ricondotte ad un denominatore comune: quello della disciplina del mercato e degli scambi che ne costituiscono l'essenza, a tutela del metodo competitivo - conflittuale idoneo a soddisfare bisogni economici mediante l'individuale scelta tra le molteplici offerte di beni o servizi.
Tanto che la partita si svolga in termini di contratti tra imprenditori, business to business (b2b), che di contratti del consumatore, business to consumer (b2c), il movente che induce legislatori nazionali e sovranazionali, autorità pubbliche e soggetti privati a fissare regole e limiti dell'operare economico è lo stesso: risiede nell'assicurare una cornice di riferimento, un ambiente giuridico certo, adeguato, uniforme nel quale abbia a svolgersi la competizione tra i giustapposti interessi. Come più volte si è ricordato, libertà di competere ed allargamento dei mercati determinano infatti, da un lato, l'esigenza di prevedere norme di comportamento tese a livellare il terreno di gioco; dall'altro, quella di limitare i costi transattivi a carico delle parti attraverso la standardizzazione dei principi fondanti e delle principali regole di condotta. Il contratto rappresenta così il vertice del triangolo che ha, alla base, da un lato l'impresa dall'altro il mercato.
Chiarito questo sul piano euristico, è poi del tutto evidente che diverse saranno le discipline, gli istituti, le tecniche giuridiche a seconda che si tratti di regolare le relazioni tra imprese concorrenti "in modo che la competizione si svolga entro i confini tracciati dai singoli statuti di norme" , ovvero di garantire consenso informato, libertà di scelta, cogenza ed effettività della regola giuridica al consumatore.
Quello è fondamentalmente problema di diritto della concorrenza, di diritto dell'impresa e del contratto idonei a preservare, ad un tempo, metodo competitivo e margini d'autonomia, concorrenza oggettiva e libertà negoziale dell'imprenditore tanto nella scelta delle forme organizzative quanto negli strumenti, nei contratti, attraverso cui si esplica la sua funzione creativa, produttiva ed innovativa. Questo è invece problema di limiti positivi a tale libertà negoziale, di disciplina dell'informazione dovuta dall'impresa, di sua responsabilità nei casi di reticenza o di informazione ingannevole, di consapevolezza e rischio della scelta da pare del consumatore.
La principale opzione metodologica qui adottata nella disamina della disciplina del credito al consumo è consistita nella scomposizione della stessa in due insiemi di norme: 1) di trasparenza e correttezza, che impattano sulla libertà di scelta, sulla consapevolezza del consenso e sull'auto - responsabilità (rectius, auto - responsabilizzazione) del consumatore; 2) di equilibrio eteronomo del rapporto, o di protezione, che impattano sulla negoziabilità del contratto, sulla sua qualità, ma anche sul relativo prezzo, con effetti strutturalmente anti - concorrenziali.
Ora, pur non sottovalutando la portata e l'impatto che le norme del secondo tipo hanno nella produzione del diritto privato europeo del consumatore, trovo che l'odierna linea di tendenza, massimamente in sede di commercio elettronico e di fonti negoziali, sia decisamente nel senso di privilegiare politiche del diritto basate sul regime della informazione minimale obbligatoria al consumatore. Questo non tanto (o non solo) per la difficoltà di concepire diritti armonizzati e tutele comparabili in chiave di interventi del (dei) legislatore (i) sostitutivi dell'autonomia delle parti, quanto soprattutto per l'antitesi di tali politiche rispetto al diritto del mercato e della concorrenza che, come abbiamo visto, costituisce la precondizione ambientale, la cornice, la sintesi anche culturale del cambiamento. In tale contesto, l'informazione al consumatore rappresenta l'unico modo per avvicinare il processo decisionale dell'individuo ad un vero esercizio di razionalità; ciò, a ben vedere, anche in ipotesi di "razionale ignoranza", visto che anche in questo caso la valutazione di utilità economica non è assente e si svolge comunque in maniera consapevole. Il fenomeno della conoscenza assurge, in tal guisa, a banco di prova, a nuova frontiera dell'impegno scientifico e sociale del civilista.
C'è, per contro, una sorta di "umiliante paternalismo", incoerente con la logica del mercato e con la consapevolezza della scelta, nel presentare il consumatore "come parte debole che meriti di essere sostenuta da autorità esterne o da stampelle legislative". Discipline di questo tipo, ove esistenti, si rivelano alla lunga recessive rispetto a quelle di trasparenza; non adeguate a rappresentare bisogni di tutela e, soprattutto, di crescita culturale del consumatore nella società post - moderna, sempre più caratterizzata da meccanismi di creazione, circolazione, selezione dell'informazione e delle conoscenze, e dunque sull'autonomia (e sul rischio) dei processi decisionali.
L'evolversi degli statuti normativi che regolano il credito al consumo fornisce di ciò una significativa conferma (continua).

(*) Queste pagine sono un abstract, una versione breve dei contenuti del volume Autonomia privata e disciplina del mercato: il credito al consumo pubblicato dalla casa editirice Giappichelli.