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Evoluzione del diritto di famiglia e ruolo del giudice . Dalla disciplina dei codici alle norme della Costituzione (*)
 


Giuseppe Salme'
 


Il tema dei rapporti tra giudice e famiglia può essere affrontato da punti di vista culturali diversi. Per il giurista si tratta di una di quelle terre di confine sulle quali è, al tempo stesso, estremamente interessante e pericoloso avventurarsi, perché è richiesta se non una conoscenza approfondita, quanto meno la consapevolezza dei principali risultati ai quali sono pervenute le altre scienze umane (la filosofia, la sociologia, la scienza della politica, la pedagogia, la psicologia ecc.).


Per secoli la famiglia è stata l'isola che il mare del diritto doveva solo lambire, secondo la fortunatissima espressione che Carlo Arturo Jemolo (La famiglia e il diritto, in Ann. Sen. Giur. Università di Catania, 1948, III), in realtà, ha utilizzato in tutt'altro contesto e cioè per rivendicare l'autonomia della famiglia, da posizioni cattolico-liberali, nei confronti delle ingerenze dello stato fascista. Una posizione effettivamente neutrale era invece presente negli stessi lavori della Costituente, in cui Vittorio Emanuele Orlando sostenne con vigore la tesi che la nuova Costituzione non doveva occuparsi della materia familiare.


La famiglia disciplinata dal codice civile del 1865, sostanzialmente ispirato al codice Napoleone, era un organismo portatore di un interesse superindividuale al quale gli interessi dei singoli veniva subordinato; un organismo che, "anche se non ha personalità giuridica è non di meno da porre accanto agli enti pubblici" (Cicu).


I rapporti familiari, secondo questo autore, dovevano inquadrarsi negli schemi teorici del potere-soggezione, caratteristici del diritto pubblico, anche se negli scritti più recenti tale tesi venne abbandonata a favore di una posizione meno drastica secondo cui le norme del diritto di famiglia, se non avevano esclusivamente natura privatistica, non erano neppure norme di diritto pubblico.


Il marito era il capo della famiglia, aveva il dovere di proteggere la moglie e di tenerla presso di se; la moglie ne assumeva il cognome, era obbligata ad accompagnarlo dovunque egli ritenesse opportuno fissare la sua residenza, non poteva compiere atti giuridici di un certo rilievo se non con l'autorizzazione del marito. Le donne, salvo le nonne e le sorelle nubili, non potevano mai assumere le funzioni di tutore.


Nel caso di morte del padre, che era il titolare esclusivo della patria potestà, la potestà passava sì alla madre, ma la stessa doveva essere affiancata da un consiglio di famiglia, composto dagli ascendenti, dai fratelli e dagli zii di sesso maschile dell'orfano, con funzioni consultive a autorizzatorie.


L'adulterio della moglie era reato e legittimava la pronuncia di separazione, mentre quello del marito, per avere le stesse conseguenze, doveva arrivare ad assumere le caratteristiche di una relazione adulterina scandalosa, perché la concubina era tenuta nella stessa casa coniugale o notoriamente altrove. Il padre, se non aveva il potere di rinchiudere in carcere il figlio disubbidiente, come previsto dal codice Napoleone, poteva tuttavia collocare il figlio, di cui non riusciva a frenare i traviamenti, in casa di correzione.


Per quanto riguarda i figli naturali, oltre a una condizione deteriore rispetto ai figli legittimi, la legge prevedeva il divieto di riconoscerli se uno dei genitori era legato da vincolo matrimoniale all'epoca del concepimento. Insomma, il codice disegnava una famiglia-istituzione maschilista e autoritaria, così forte da non tollerare interferenze esterne; lo Stato si limitava a offrire il braccio secolare per mettere in prigione la moglie adultera o in casa di correzione il figlio disobbediente.


I caratteri autoritari e maschilisti del modello familiare, quanto meno negli intendimenti e nella retorica dei redattori, rimangono fermi nel codice del 1942, ma con un significativo cambiamento, perché lo Stato autoritario non accetta più di fermarsi alle soglie della famiglia, in ossequio all'etica mussoliniana secondo cui "l'individuo non esiste se non in quanto è nello Stato e subordinato alle necessità dello Stato".


Non si tratta di un intervento diretto a mettere sotto tutela "globale" la famiglia, ma di un'azione di "protezione" nei confronti dei soggetti più deboli, dei minori, attraverso magistrati che svolgono funzioni particolari, che non sono quindi chiamati a pronunciare un giudizio tra due parti ma a intervenire, anche d'ufficio, ricercando le prove necessarie, per risolvere problemi relativi agli interessi materiali e spirituali dei minori, controllando, autorizzando, sanzionando. Viene così creato il tribunale per i minorenni nel 1934 e il giudice tutelare nel 1939 con l'entrata in vigore del libro primo del codice.


La Costituzione, in maniera diretta con gli artt. 29, 30 e 31, ma anche indirettamente con la forza espansiva dei principi dettati dagli artt. 2 e 3, scardina invece il tradizionale rapporto tra famiglia e diritto.


La famiglia non è più vista come istituzione, ma come formazione sociale ove si forma e si svolge la personalità, autonoma dallo Stato, che si impegna ad agevolarne la nascita e l'adempimento dei compiti. Autonomia, peraltro, che non significa riconoscimento della extrastatualità della famiglia, come istituzione portatrice di propri interessi superiori di rilievo pubblicistico o di non precisati e non precisabili diritti naturali, ma, autonomia come "garanzia costituzionale del concreto interesse dei singoli ad ordinare in modo originale e libero i loro rapporti" (BESSONE, Rapporti etico sociali, in Commentario della costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, 18).


Le regole dettate sono poche: sostanzialmente l'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi e il divieto di discriminazioni tra figli legittimi e naturali; il diritto dei figli all'educazione in famiglia. "La tendenza antiautoritaria della famiglia e il suo declino quale modello imposto dalla regola giuridica o da una rigida realtà socio-economica favoriscono ... il suo realizzarsi in forma di convivenza solidale nella quale si svolge liberamente la personalità umana. La famiglia, in definitiva, tende a porsi in funzione della persona" (BIANCA, Diritto civile, Milano 1981, II, 6).


Lo spirito della Costituzione ha tardato un po' a tradursi in orientamenti giurisprudenziali o in norme di legge. Bisogna aspettare la fine degli anni sessanta, per registrare una sorta di ricorsa tra giudici ordinari, Corte costituzionale e legislatore, tutti impegnati a dare attuazione ai nuovi principi costituzionali.


Rivedendo alcuni suoi precedenti orientamenti negativi, con sentenza n. 127 del 1968 la Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale delle norme in tema di separazione che valutavano in modo diverso l'adulterio del marito rispetto a quello della moglie, mentre con la coeva sentenza n. 126, viene dichiarata illegittima la diversa configurazione dei reati di adulterio per i due coniugi.


Con la sentenza n. 133 del 1970 è ritenuta illegittima la differenza tra marito (obbligato sempre) e moglie (obbligata solo se il marito ha mezzi insufficienti) separati, quanto all'obbligo di mantenimento; con la sentenza n. 99 del 1974 viene dichiarato inesigibile il dovere di fedeltà tra coniugi separati; con sentenza n. 91 del 1973 viene cancellato il divieto di donazioni tra coniugi; con le sentenze nn. 79 del 1969 e 205 del 1970 vengono cancellate alcune discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali in materia sucessoria.


Ma di pari se non superiore forza dirompente è l'approvazione della legge n. 431 del 1967, che, introducendo nel nostro ordinamento l'adozione speciale, ha operato la rivoluzione copernicana nei rapporti tra genitori e figli, per la prima volta considerati soggetti, titolari del diritto inviolabile a diventare persona.


La portata fortemente innovativa della legge sull'adozione speciale fu percepita immediatamente dai giudici. Il dibattito tra gli strenui sostenitori della famiglia del sangue e quelli che ritenevano prevalente la famiglia degli affetti (tanto per semplificare) si riproduce all'interno della magistratura. Pur con qualche forzatura i due schieramenti vengono rappresentati, da una parte, dai tribunali per i minorenni, dalla Corte di cassazione e dalla corte costituzionale, dall'altra dalle corti d'appello .


È inutile dire che, specie tra i sostenitori dei diritti assoluti della famiglia di sangue, si ricorreva a piene mani più che ad argomentazioni tecniche, a motivazioni ideologiche.


Il primo attacco alla legge n. 431 venne portato direttamente al nucleo centrale della disciplina: al potere del giudice di recidere coattivamente il rapporto di filiazione. La questione sollevata dalla corte d'appello di Palermo, basata sull'argomento suggestivo dell'adozione come espropriazione dei bambini delle famiglie povere per darli alle famiglie ricche è dichiarata non fondata dalla Corte costituzionale (sentenza n. 234 del 1975).


< Pur dovendosi riconoscere che la situazione di abbandono materiale e morale di minori di anni otto, più facilmente si verifica nell'ambito delle famiglie meno abbienti, che non si può tuttavia non tener presente che detta situazione, nella previsione normativa e nella sua pratica verificazione, non è necessariamente collegata alla condizione economica familiare e può non sussistere anche se i genitori non siano in grado di mantenere i figli (arg. ex art. 314/4, 2° comma).
Non si presta, perciò, ad essere condivisa dalla Corte l'affermazione, contenuta nell'ordinanza di rimessione, secondo cui "la legge colpisce unicamente le classi povere, accentuando, rispetto ai genitori, le diseguaglianze determinate da situazioni di ordine economico, anziché contribuire a rimuoverle".


Sul punto, v'è da riaffermare i principî già espressi nelle sentenze nn. 145 del 1969, 158 del 1971 e 76 del 1974 (Foro it., 1970, I, 24; id., 1971, I, 2119; id., 1974, I, 946) e, specificamente, da mettere in rilievo che l'istituto dell'adozione speciale, in funzione della tutela dell'interesse del minore che si trovi in situazione di abbandono materiale e morale, appare conforme al disposto del 2° comma dell'art. 3 Cost., in quanto favorisce lo sviluppo della persona umana, con l'inserimento del minore in una famiglia che ne possa avere adeguata cura >.


Per rendersi conto dello scontro culturale che si apriva sulla legge n. 431 è istruttiva la lettura della sentenza 28 giugno 1974, sempre della corte d'appello di Palermo, con la quale si risolse in senso negativo il problema se il minore rimasto orfano di entrambi i genitori e privo di parenti, dovesse ritenersi abbandonato ai sensi dell'art. 314/7 c.c., o dovesse distinguersi tra orfano di genitori poveri e orfano di ricchi (segue).



(*) Queste pagine e le altre che seguiranno sono una prima parte del saggio pubblicato in AA.VV, Diritto giurisprudenziale ,che qui si pubblicano per cortese
autorizzazione dell'editore Giappichelli